Le novità nel maggio di Monaco di Baviera
Storie di separazioni e di attese, talvolta lunghissime, talvolta solo sperate: sono i temi che legano le due produzioni di teatro musicale della seconda edizione del Festival “Ja, Mai”, isola di creazione contemporanea creata dal sovrintendente Serge Dorny nell’opulenta programmazione dell’Opera di Stato Bavarese.
“Ja, Mai” vuole programmaticamente aprire una finestra sul nuovo ed esce dunque dall’ufficialità del repertorio del Nationaltheater per abitare spazi alternativi. È carico di storia quello scelto per Il ritorno/L’anno del pensiero magico: la fastosa sala rococò tutta stucchi e velluti del Cuvilliés-Theater, l’antico teatro della corte bavarese. Non è per caso: il legame con la storia è il segno del lavoro che vi si rappresenta, una storia di perdita di una persona cara e di un’attesa satura di domande senza risposta. È il 30 dicembre 2003: John Gregory Dunne muore all’improvviso mentre sta cenando. È l’uomo che ha condiviso la vita per quarant’anni con la scrittrice Joan Didion. La donna non si rassegna a quell’improvvisa perdita e inizia un faticoso e doloroso viaggio interiore fatto di ricordi, di cose dette, non dette o non ancora dette, che colmano il vuoto di quella perdita senza preavviso e difficile da capire prima ancora che accettare. Quella lunga riflessione, che è anche un congedo dalla persona amata, nel 2005 diventa un libro, L’anno del pensiero magico (pubblicato da Il Saggiatore in Italia), vincitore del National Book Award, uno fra i più noti della scrittrice americana scomparsa nel 2021 a 87 anni.
Il libro di Didion è l’“esoscheletro” costruito dal regista Christopher Rüping e dal drammaturgo Malte Ubenauf attorno a una versione ridotta al nucleo drammaturgico più pregnante de Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi, ancora una volta fonte di ispirazione per le creazioni contemporanee come già per The Return di Simon Steen Andersen visto nella scorsa Biennale Musica. Il filo che lega la tragedia di Joan Didion e la vicenda dell’opera è la figura del marito John che diventa l’Ulisse monteverdiano mentre sul piano emotivo il suo dolore si fa musica già nel celebre lamento di Penelope “Di misera regina”, che apre alla musica monteverdiana dopo la lunga premessa fatta di parole dal libro della scrittrice pronunciate in un gioco quasi polifonico dal trio di attori, fra introversa sofferenza di Sibylle Canonica e Wiebke Mollenhauer e distacco stralunato di Damian Rebgetz. Il contrastato percorso di elaborazione del lutto si specchia nella varietà di affetti alla quale danno voce i diversi personaggi del dramma per musica monteverdiano per lenire il dolore di Penelope, com’è per il gioioso erotismo espresso dall’ancella Melanto e dall’amante Eurimaco, o per occupare il vuoto del consorte, com’è per l’interessata insolenza del trio dei Proci Eumete, Antinoo e Anfinomo. L’attesa riunione fra Penelope e Ulisse non è l’utopica prospettiva di un ricongiungimento con chi non c’è più ma segna la raggiunta consapevolezza che, chi resta, deve vivere le possibilità che offre il presente senza rinchiudersi in un passato che nega la vita stessa.
Guida bene il gioco scenico il regista Christopher Rüping fra la nudità del palcoscenico per il dramma intimo di Joan Didion e il divertito illusionismo delle scenografie barocche contaminate da segni estetici contemporanei di Jonathan Mertz integrate dalle immagini su un fondale ledwall quadrato di paesaggi in movimento e primi piani degli interpreti curate da Susanne Steinmassl. Più coraggio ci sarebbe voluto invece nel lavoro drammaturgico sul testo della Didion che, soprattutto nella parte finale, si avvita su se stesso compromettendo la tensione drammatica. Ottima invece la realizzazione musicale affidata a un eccellente ensemble vocale che conta sulle ottime prove di Kristina Hammarström, una Penelope ad alta temperie tragica, di Charles Daniels, un Ulisse visibilmente gravato dal peso degli anni di esilio, ma anche di Xenia Puskarz Thomas e Liam Bonthrone, i giovani amanti complici Melanto e Eurimaco, di Aleksey Kursanov, Roman Chabaranok e Cameron Shahbazi, il divertito trio dei Proci, e di Granit Musliu, un Telemaco fin troppo distaccato. Li accompagnano strumentisti della Bayerisches Staatsorchester con il Monteverdi Continuo Ensemble diretti con sensibile perizia filologica da Christopher Moulds.
Arte come interazione fra persone e con gli ambienti nei quali quelle persone sono immerse piuttosto che come oggetto da ammirare: è l’arte secondo Rirkrit Tiravanija, artista dalle molte patrie e altrettante identità culturali, al quale la Haus der Kunst di Monaco dedica una personale fatta di soprattutto di installazioni partecipative. Fra queste c’è la più recente Tea Ceremony nella quale una cerimonia del tè molto intima condotta da Mai Ueda ha luogo sulla struttura in plexiglas trasparente creata dallo stesso artista che serve anche come scenografia per l’opera Hanjo di Toshio Hosokawa, presentata in un nuovo allestimento nell’ambito di “Ja, Mai”. Tracce dell’opera di Hosokawa si trova già nel banner sopra l’ingresso della Haus der Kunst: “I wait for nothing” (Io non aspetto nulla), la battuta che significativamente chiude quest’opera sull’attesa. “The motionless star and the moving star will meet” (La stella fissa e la stella in movimento si ritroveranno) accoglie invece gli spettatori nei ledwall che incorniciano lo spazio destinato all’azione scenica nel grande salone della Westgalerie, nel quale il pubblico trova posto sulle due tribune allestite lungo i lati corti.
La regia è affidata al coreografo Sidi Larbi Cherkaoui che affolla delle presenze degli otto danzatori della sua compagnia Eastman di Anversa la scarna ma intensa trama del Nō di Yukio Mishima. Un racconto di tre disperate solitudini – quella di Hanako, la donna in attesa, Jitsuko, l’artista che la ama senza speranza, e Yoshio, il giovane tanto atteso da Hanako e rifiutato – realizzato però con troppi movimenti di corpi e oggetti nello spazio scenico, con largo uso di doppi e esplicitazioni narrative che finiscono per essere didascaliche senza una vera necessità drammaturgica. La stessa musica di Toshio Hosokawa, priva di una vera dinamica, descrive piuttosto un tempo sospeso nel quale passato e presente si fondono e confondono. Più coerente con la natura della musica è, fortunatamente, la preziosa esecuzione musicale della Münchener Kammerorchester diretti da Lothar Koenigs. Dei tre interpreti il più personaggio è Charlotte Hellekant, una Jitsuko fin troppo corposa e definita, mentre Sarah Aristidou come Hanako e soprattutto Konstantin Krimmel come Yoshio non vanno al di là di buone prove vocali.
Grande curiosità e interesse ma di un nuovo “Ja, Mai” nella prossima stagione del teatro non c’è traccia. Per ora. Un esperimento già finito in archivio?
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