Il Trittico ricomposto
All’Opera di Roma ll tabarro di Puccini abbinato al Castello di Barbablù di Bartók
Rappresentare il Trittico di Puccini in una sola sera è diventato molto complesso e soprattutto molto oneroso per le finanze dei teatri. Ma non è soltanto per ragioni organizzative ed economiche che il Teatro dell’Opera ha progettato di scomporlo in tre serate, abbinando ogni pannello del trittico pucciniano ad un atto unico dello stesso periodo, proponendo così un interessante confronto, che finirà – ci scommettiamo – per confermare la piena appartenenza dell’ultimo Puccini al Novecento. L’idea sembra ottima, stando a quel che si è visto e ascoltato nel primo di questi tre spettacoli; gli altri due seguiranno nelle prossime stagioni.
Apriva la serata Il tabarro, in un nuovo allestimento del regista viennese Johannes Erath, con le scene di Katrin Connan, i costumi di Noëlle Blancpain e – particolarmente importanti nella concezione di questo spettacolo – le luci e i video rispettivamente di Alessandro Carletti e Bibi Abel. Al di là di qualche venatura simbolista ed espressionista, non c’era nulla di intellettualistico e cervellotico (lo diciamo per chi avesse temuto una regia “alla tedesca”) anzi era uno spettacolo molto lineare, quasi minimalista. Poco o nulla interessato al realismo, al contrario introducendo qua e là degli elementi onirici, Erath si è concentrato sulla condizione esistenziale di quelle povera gente dalla vita grigia e dai sentimenti naturali, spontanei ed elementari, predestinata alla sconfitta fin dall’inizio, che vive a Parigi ma che della ville lumière conosce soltanto le cupe acque della Senna, le grigie banchine, il cielo nebbioso, il vecchio barcone (che qui non si vede) e i pesanti sacchi che vi devono essere caricati.
Questo mondo tetro e quasi funereo viene come riassunto dalla riproduzione (alquanto libera, probabilmente per ragioni di copyright) del celebre quadro di Böcklin L’Isola dei morti, proiettato sul fondale grigio all’inizio e alla fine dell’opera. E quando l’altra Parigi viene per un attimo evocata dal libretto, è incarnata da donne irreali, avvolte in abiti dai colori sgargianti e addobbate con gioielli, piume e cappelli bizzarri: un mondo totalmente estraneo a quello dei miserabili protagonisti del Tabarro.
Nella recitazione molto misurata e sempre in linea con la musica (non per nulla Erath ha iniziato come musicista, prima di passare alla regia) non c’è nulla di superfluo né manca nulla di quel che è essenziale e necessario a questa tragedia dei poveri. Non c’è però il tabarro del titolo, in cui Michele nasconde il corpo di Luigi: a qualcuno è mancato, ma non al sottoscritto che ha sempre trovato alquanto grandguignolesco e comunque inessenziale quest’effettaccio finale del libretto di Giuseppe Adami, degno del peggior verismo e totalmente estraneo alla modernità della musica e della concezione teatrale di Puccini.
La direzione di Michele Mariotti ha dato una dimostrazione splendida proprio di questa modernità di Puccini, a partire dalla breve introduzione, quando con piccole e precisissime pennellate ha dipinto i colori lividi, acidi e sinistri di quel quai della Senna, dando così il la alle atmosfere grigie e smorte prevalenti nel Tabarro, in cui si inserivano come naturali espansioni le scene di dura drammaticità, i grandi temi appassionati, i rari momenti vivaci a ritmo di danza. Mariotti sa anche lavorare benissimo con le voci e inserirle nel suo disegno interpretativo. E le voci erano eccellenti.
Maria Agresta era una Giorgetta meravigliosamente fresca, una giovane donna innamorata e sostanzialmente indifesa; mai ha alzato il tono per cercare il facile effetto drammatico e la passionalità cosiddetta verista: proprio per questo il personaggio è risultato più vero e coinvolgente. Gregory Kunde ha usato la sua voce ancora miracolosamente salda e potente per dar vita a un Luigi lirico e appassionato ma anche con momenti di amarezza. Nella recita di cui si riferisce Luca Salsi ha lasciato il posto, com’era programmato, a Sebastian Catana, che con un bel timbro scuro ma non artificialmente bistrato e con un canto molto controllato, intriso di dolore e di pessimismo e mai gridato e anzi talvolta quasi sussurrato, è stato un Michele ideale.
Enkelejda Shkoza portava in questo mondo grigio e disperato i sogni di una vita migliore della vecchia Frugola: è stata un’interpretazione maiuscola, che ha trasformato questa comprimaria nel quarto protagonista. Ottimi i personaggi minori, che meritano tutti almeno la citazione: Roberto Lorenzi (il Talpa), Didier Pieri (Il Tinca), Marco Miglietta (il venditore di canzonette) e i giovanissimi Valentina Gargano ed Eduardo Niave del Progetto “Fabbrica” dell’Opera (i due amanti).
Nello stesso anno (il 1918) della prima del Trittico del sessantenne e famosissimo Puccini, andava in scena anche Il castello del principe Barbablù del trentasettenne e semisconosciuto ungherese Béla Bartók, che proprio con quest’atto unico cominciò ad essere riconosciuto come una delle voci più forti e originali del Novecento. Il libretto era totalmente immerso nel simbolismo e nell’espressionismo, che spesso s’incrociavano e si sovrapponevano nelle avanguardie artistiche e letterarie del tempo. Certamente non è quel che normalmente viene considerato un argomento adatto ad un’opera, e il fatto che Bartók l’abbia scelto è un chiaro indizio della sua personalità ma risente anche dei tempi in cui l’opera fu scritta, negli ultimi atroci mesi di guerra prima del definitivo tracollo dell’Austria-Ungheria.
Dunque il testo è non soltanto cupissimo ma anche totalmente anti operistico, perché non vi è alcuna azione, se non l’aprirsi successivo di sette porte. Alla musica non resta che scavare nella psicologia o, più esattamente, nell’inconscio impenetrabile e misterioso dei due personaggi. Ma descrivere il mistero è quasi un ossimoro, quindi la musica più che descrivere si aggira intorno a quei due esseri impenetrabili, lui (Barbablù) privo quasi totalmente di ogni pulsione umana, lei (Judit) vitalissima e a tratti appassionata, ma per motivi che restano totalmente incomprensibili, anzi assurdi. È sicuramente quel che Bartók voleva, cioè portare in scena il mistero dell’inconscio, gettandovi dei lampi di luce, senza nemmeno tentare di spiegare ciò che è inconoscibile.
Considerando l’assenza di azione, quest’opera non perderebbe molto ad essere rappresentata in forma di concerto, ma Erath è riuscito a darle un minimo di teatralità. Come aveva messo in evidenza la leggera patina simbolista, espressionista ed onirica nel Tabarro, così ha scoperto qualche briciola di realismo nel Castello di Barbablù. Mikhail Petrenko era un Barbablù inumano, freddo, perfino apatico. Szilvia Vörös, bravissima, alternava timore e depressione a scoppi di energia e disperata voglia di vivere.
Ma la vera grande protagonista è stata – come deve essere - l’orchestra, ottimamente diretta da Michele Mariotti, che ha rivelato come questa partitura sia splendida, sebbene tutt’altro che facile da eseguire da parte dell’orchestra e da seguire da parte del pubblico. Mariotti le ha conservato la tinta di fondo prevalentemente cupa, ma con un’inesauribile varietà di sfumature, di armonie, colori e ritmi, che la rendevano di volta in volta misteriosa e cupa ma anche attraversata da bagliori accecanti, spaventosa e violenta ma anche con rari lampi di tenerezza.
L’ottima accoglienza del pubblico era scontata per Puccini ma è stata una positiva sorpresa per Bartók.
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