Le sette generazioni di Dave Okumu
I Came from Love del chitarrista e produttore Dave Okumu è un affresco collettivo sulla blackness di ieri e oggi
A molti il nome di Dave Okumu suonerà nuovo ma in realtà da diversi anni è onnipresente in qualità di chitarrista, avendo lavorato con Jane Birkin, Adele, King Sunny Adé, Grace Jones, Theo Parrish, 4 Hero, Matthew Herbert, Amy Winehouse, Tony Allen e altri ancora.
Come compositore e produttore ha collaborato con VV Brown, Nilüfer Yanya, Arlo Parks, Jessie Ware e Rosie Lowe, scolpendo un suono pop sofisticato che ha avuto una grande influenza; senza dimenticare il suo trio di art rock The Invisible, che è stato in corsa per il Mercury Prize.
I Came from Love è solo il suo secondo album a suo nome, a distanza di due anni dal precedente Knopperz, lavoro di jazz/hip hop strumentale – sempre nel 2021 uscì anche The Solution Is Restless, in compagnia di Joan As Police Woman e il già citato Tony Allen.
Dave è il più piccolo di otto figli, nato a Vienna da genitori kenioti e portato a Londra all’età di dieci anni. Cresciuto in una famiglia amante della musica, Dave ricorda di essere stato introdotto al funk e al soul degli anni Ottanta dalle sue sorelle maggiori e di aver ricevuto lezioni di chitarra da suo fratello.
La sua carriera è cominciata alla metà degli anni Novanta con The Invisible e con le collaborazioni già elencate che nel corso degli anni gli hanno permesso di avere un’agenda telefonica davvero ricca, tornata utile per la realizzazione di questo nuovo album, visto l’elenco davvero imponente di musicisti e cantanti coinvolti sotto il nome di The 7 Generations.
«I Came from Love è un affresco dell’esperienza dei Neri che esplora l’ascendenza, il retaggio della schiavitù, cosa significa esistere in una società ingiusta e la storia della famiglia Okumu» - dalla pagina Bandcamp di Dave Okumu
Ho fatto un rapido accenno ai collaboratori ma vediamo in dettaglio quali sono i nomi principali coinvolti nel nuovo progetto: Eska, Kwabs, Wesley Joseph, Robert Stillman, Anthony Joseph, Byron Wallen, Raven Bush, Tom Skinner e Grace Jones, sua grande amica, tutti raccolti sotto il nome di The 7 Generations, secondo Okumu i suoi antenati reali, gli antenati di altri, i suoi antenati musicali e i suoi discendenti.
Le 14 canzoni (più una breve introduzione) che compongono l’album sono divise in quattro capitoli: You Survived So I Might Live (1-4), The Intolerable Suffering Of (The) Other (5-8), Seduced By Babylon (9-11) e Cave Of Origins (12-14), accompagnati da mini-film (molto belli) diretti da Nicolas Premier.
Un disco senza dubbio ambizioso, con uno scopo paragonabile a quello di Small Axe, la mini-serie del 2020 creata dal regista Steve McQueen e trasmessa da BBC One.
«Dalla prima volta che ho ascoltato i 7 Generations sono rimasto sbalordito dal potenziale cinematografico ed estetico. Anche il modo in cui la musica di Dave abbraccia una grande diversità di fonti musicali è di grande ispirazione. Fare film vuol dire comporre poesia con le immagini e i suoni e spesso la musica gioca il ruolo dell’innesco come è successo per You Survived So I Might Live», ha detto Premier.
Le canzoni comprese aprono le porte a molti aspetti dell’esperienza diasporica, un po’ come successe con Untitled (Black is) dei Sault e The Cycle dei Mourning [A] BLKstar, e in alcuni casi dialogano con le parole di giganti della cultura nera quali Aimé Césaire e Stuart Hall.
Il primo singolo tratto dall’album è stato "Blood Ah Go Run", brano che affronta l’orrore dell’incendio, molto probabilmente doloso e di matrice razzista, avvenuto nel 1981 in una casa a New Cross, South London, in cui rimasero uccisi 13 ragazzini neri lì radunati per una festa. Il testo riflette i sentimenti del tempo della comunità nera, scandendo ad alta voce «Blood ah go run / if no justice no come» (il sangue scorrerà se non sarà fatta giustizia). L’episodio fu l’ispirazione per un altro celebre brano, "New Crass Massahkah", del dub poet Linton Kwesi Johnson.
L’album si apre con "Two things", una breve esplosione basata su una ragazza, Priscilla, comprata a un’asta di schiavi in South Carolina nel 1756 con Grace Jones che recita frasi estrapolate dal diario del proprietario di schiavi Elias Ball («do two things, buy land and buy young slaves») su un tappeto gospel.
La cantante giamaicana compare nuovamente in "7 Generations", in compagnia di Eska e Wesley Joseph, dichiarando che noi dovremmo «sentire la resilienza di sette generazioni», mentre la musica è una miscela di elettronica e ritmi vivaci con un pizzico di cajun. In contrasto con la già citata "Blood Ah Go Run", costruita su ritmi urgenti di basso, "Streets" passa da un’orchestrazione fatata a un espressivo lamento jazz e un sentimento sprezzante («sentiremo gli uccelli in gabbia cantare nuovamente»).
Non essendo stato possibile “ripulire” un campione di CLR James mentre legge la poesia di Aimé Césaire Return to my Native Land, "My Negritude" lo contiene recitato su una base funk dal poeta Anthony Joseph, due anni fa autore, tra le altre cose, dell’album The Rich Are Only Defeated When Running For Their Lives.
"The Cost" vede Kwabs riflettere sul prezzo richiesto per la sopravvivenza della minoranza mentre le tastiere e i synth, azionati da Nick Ramm di The Cinematic Orchestra e Aviram Barath creano vibrazioni inquiete che perdurano anche durante "Prison", brano dal sapore trip hop e una delle vette dell’intera raccolta. "Black Firework" è ispirato dal figlio di cinque anni di Okumu che sostiene di vedere fuochi artificiali neri su uno schermo e la storia diventa una metafora per l’ascendenza della cultura nera, tema che ritorna durante "Get Out".
"Scenes" comincia con un sample che afferma «il lavoro del nemico è di farti identificare completamente col nemico» e prosegue con un’orazione declamata da Anthony Joseph («non possiamo essere rispediti indietro… non possiamo essere una metafora per la differenza»): la proclamazione della bellezza e il rifiuto di essere messi a tacere sono le risposte assolutamente necessarie al clima creato dalle parole e dalle azioni crudeli dell’Home Secretary Suella Braverman.
La festa elettro-funk "Amnesia" ipotizza l’idea che l’Inghilterra soffra di un inconsapevole dolore straziante per la perdita dell’Impero e che coloro che patirono l’imperialismo stiano ancora pagando le conseguenze della sua eco ancestrale.
"The Struggle" ripete le frasi «the struggle to articulate what we’re going through / the struggle to articulate what we’re going to do» su un groove di sax mentre l’affermazione «the system’s broken» di "Eyes on Me" è accompagnata dall’urgenza delle linee di basso e del drumming di Tom Skinner, qui più in versione Sons of Kemet che The Smile.
Si chiude con atmosfere dub giamaicane e "Abaka" e "Paradise" sono la degna conclusione di un album che non esito a definire strepitoso, un lavoro che ha la sua forza principale nelle sue molteplicità, un viaggio che impegna sia la testa sia il cuore.
«I came from love / shall I return to paradise»