Lonnie Holley, arte del trauma

Oh Me Oh My è il nuovo album del 73enne artista statunitense, fiancheggiato da Michael Stipe, Moor Mother, Bon Iver e Sharon Van Etten

 

Lonnie Holley
Disco
pop
Lonnie Holley
Oh Me Oh My
Jagjaguwar
2023

Il nuovo album Oh Me Oh My illustra nitidamente il senso dell’azione creativa di Lonnie Holley: è “arte del trauma”, nella definizione coniata per descriverla sulla piattaforma web del festival Afropunk.

– Leggi anche: L'America di Lonnie Holley

Si tratta cioè del precipitato sul piano espressivo di un’esistenza romanzesca: settimo di 27 figli, in coma per mesi da bambino dopo essere stato investito da un’auto e condannato da adolescente a tre anni di reclusione, in età adulta è diventato artista assemblando scorie del consumismo.

La musica è venuta poi, frutto di un’applicazione da autodidatta: «Suono per ore e ore tenendo il registratore acceso e produco materiale a strati, come facevo realizzando le mie sculture», racconta nel documentario biografico di George King Thumbs Up for Mother Universe.

Al debutto nel 2012 – ormai 62enne – con Just Before Music, raggiunge ora l’apice della propria attività discografica, certificato indirettamente dal rango dei partner chiamati ad affiancarlo nell’impresa. Durante il brano che dà titolo all’opera, ad esempio, si sente Michael Stipe modulare sullo sfondo il refrain, mentre Holley dà sfogo al suo tipico flusso di coscienza: “Umani vi prego ascoltate, perché a volte è giusto interrogarsi nel profondo, vi invito ad andare più a fondo che potete, perché credo che più in profondità andiamo, maggiori sono le possibilità di capire”.

In “Kindness Will Follow Your Tears” si riconosce invece il caratteristico falsetto di Justin “Bon Iver” Vernon, incaricato di introdurre la salmodia del protagonista: “La grandezza arriverà al mattino e la gentilezza seguirà le vostre lacrime e le asciugherà nel corso degli anni”.

E a rafforzare il pathos di “None of Us Have But a Little While” (“Tutti noi non abbiamo che un po’ di tempo per arrivare in qualche posto, tutti noi lottiamo strada facendo”) è il controcanto limpido di Sharon Van Etten. Altri cammei svelano la natura politica del disco: l’aria in lingua Bambara intonata dalla maliana Rokia Koné in “If We Get Lost They Will Find Us” ne orienta il baricentro geografico verso l’Africa degli antenati e la doppia apparizione di Moor Mother – in “Earth Will Be There” e nell’epica “I Am Part of the Wonder” – gli conferisce plusvalore in termini di poetica militante.

Da parte sua, Holley tesse la trama narrativa tramutando a tratti il parlato in canto, come un redivivo Gil Scott-Heron, ed espone sé stesso senza reticenza alcuna: “Raccogliere il cotone, trasportare le balle piegando la schiena, zappare su e giù per fossi e ruscelli, diserbare i prati”, ricorda del periodo di detenzione in un riformatorio dell’Alabama razzista da cui uscì nel 1964, “ma con tagli e lividi che non dimenticherò mai” (esperienza appena rievocata inoltre nel podcast Unreformed curato da Josie Duffy Rice).

È appunto in “Mount Meigs” che Oh Me Oh My mostra il suo aspetto più ostico, circondando le parole di asprezze musicali al crocevia fra jazz radicale, tensione rumorista e impeto rock: orchestrazione alla quale contribuisce con gli arrangiamenti d’archi il torinese da esportazione Davide Rossi.

Il campionario sonoro, architettato in studio dal produttore californiano Jacknife Lee, è ad ampio spettro, dalla flessuosa cadenza afro funk di “Better Get That Crop In Soon” al rarefatto fondale ambient di “I Can’t Hush”, sfociando infine nell’avant-garde elettronica di “Future Children”, quando la voce robotica del narratore annuncia con trasporto da profezia biblica: “Accadrà presto, prima di quanto immaginiamo, i bambini del futuro”.

Riferendosi a questi ultimi, ha dichiarato a “Uncut”: “Per loro la mia musica è un’autostrada da percorrere per raggiungere davvero la libertà, la libertà da tutti gli errori terribili che sono stati commessi sul nostro pianeta”.

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