Tre violoncelli per Bach
A pochi giorni di distanza l’uno dall’altro Brunello, Maisky e il giovanissimo Pagano hanno suonato a Roma le Suites per violoncello solo di Bach
Per una singolare coincidenza tre stagioni romane di musica da camera –Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Accademia Filarmonica Romana e Oratorio del Gonfalone – hanno programmato nel giro di pochi giorni tre concerti dedicati alle Suites per violoncello solo di Bach, affidandoli rispettivamente a Mario Brunello, Misha Maisky ed Ettore Pagano. In genere queste sovrapposizioni sono il fastidioso risultato dell’assenza dell’auspicabile coordinamento tra le istituzioni concertistiche di una stessa città, eppure questa volta ne è nato qualcosa d’estremamente interessante, come se tutto fosse stato calcolato. Maisky ha suonato le Suites n. 1, 4 e 5 e sei giorni dopo Pagano ha scelto le altre tre, cosicché in sei giorni si è potuto ascoltare il ciclo completo delle sei Suites. Brunello invece ha eseguito due Suites, una delle quali (la n. 1) era tra quelle eseguite da Maisky e l’altra (la n. 3) tra quelle eseguite da Pagano.
Seguendo l’ordine cronologico dei concerti, cominciamo da Mario Brunello, che a sessantadue anni è all’apice della maturità artistica. Ricava dal violoncello di Giovanni Paolo Maggini (uno dei due di questo liutaio del Seicento ad essere giunto fino a noi) un suono omogeneo e purissimo dal grave all’acuto e lo mette al servizio di un’interpretazione delle Suites bachiane depurata quasi totalmente dalle ascendenze danzanti dei movimenti che le compongono, perché i tempi sono fluidi e molto liberi e gli accenti ritmici delle danze non vengono affatto evidenziati, a rischio di castigare la varietà dei singoli movimenti. Si direbbe che, mutatis mutandis, il modello ideale di Brunello sia Pablo Casals, che riscoprì queste Suites all’inizio del Novecento e ne lasciò una storica incisione realizzata tra il 1936 e il 1939: sotto il suo archetto questa musica non aveva quasi più nulla a che vedere con cose terrene come le danze e diventava un mondo iperuranio d’incontaminata e spirituale bellezza. Ovviamente tra Casals e Brunello corrono anche molte differenze, ancor più importanti di qualche vaga somiglianza, perché la distanza temporale tra loro è di circa cento anni e questo si avverte benissimo: Casals attribuiva ad ogni movimento drammaticità o pathos o misticismo, insomma “romanticizzava” Bach, mentre l’interpretazione di Brunello è asciutta e moderna.
Passando all’oggi settantacinquenne Misha Maisky il suo approccio è quello di un grande solista della vecchia scuola. Nella sua interpretazione si vede la sua stessa personalità riflessa nello specchio di Bach, perché si accosta a Bach senza timori reverenziali e senza preoccuparsi né dello stile né della filologia e si lascia guidare dal suo istinto e dal suo temperamento, affinati però dalla lunga frequentazione di queste musiche, da lui suonate in centinaia di concerti e riproposte più volte al pubblico romano, che sempre gremisce questi suoi concerti bachiani e applaude entusiasta. E si può ben capire tanto entusiasmo. In realtà all’inizio si avverte la mancanza di una visione d’insieme da parte di Maisky e si ha l’impressione di un’interpretazione un po’ casuale, priva di una linee corente. Ma le perplessità svaniscono rapidamente di fronte alla continua varietà di accenti, di dinamiche, di colori e di fraseggi, che certamente Bach e i suoi contemporanei nemmeno immaginavano, anche perché erano irrealizzabili con gli strumenti privi di puntale, le corde, gli archetti e la tecnica esecutiva dell’epoca. Ogni movimento è quasi una piccola scena teatrale, si tratti di una danza lenta come la sarabanda o di danze veloci come le gighe e quelle che Bach stesso definì “galanterie”, ovvero le danze che più tardi delle altre erano approdate nelle corti e quindi conservavano ancora qualcosa della loro origine popolaresca. Indimenticabile la deliziosa Gavotta della Suite n. 5 in cui si fondono il carattere rustico delia danza paesana e la grazia della danza di corte: sembrava quasi di vedere una contadinella che fa la civettuola.
Brunello e Maisky hanno suonato in due giorni consecutivi e dopo un intervallo di sei giorni è stata la volta di Ettore Pagano, che è nato a Roma nel 2003, quindi ha sì e no vent’anni. Se qualcuno avesse pensato che non avrebbe potuto reggere il confronto, è stato clamorosamente smentito. Questo ragazzo non è più una promessa ma un musicista già straordinariamente maturo per padronanza tecnica, per bellezza del suono, per rigore stilistico, per maturità d’interprete: non soltanto ha confermato le voci che l’avevano preceduto ma è andato oltre ogni aspettativa. Difficile trattenersi dal parlarne con un entusiasmo che potrebbe sembrare eccessivo a chi non l’avesse mai sentito suonare. E allora diciamo che il suono è bellissimo, timbrato, puro e omogeneo, ma che si sono sentite anche alcune note gravi un po’ gutturali e alcune note acute un po’ sibilanti: si potevano contare sulle dita e forse la responsabilità era anche del violoncello, dato che probabilmente Pagano non può ancora permettersi uno strumento pregiato come il Montagnana di Miasky o il Maggini di Brunello. E l’esecuzione della prima delle Suites da lui eseguite - la n. 2 - è stata un tantino inferiore alle altre, forse perché doveva ancora scaldarsi o forse perché era un po’ deluso e demotivato dal pubblico molto scarso (lo sciopero dei trasporti pubblici può esserne la spiegazione). Ma poi la Suite n. 3 è stata assolutamente abbagliante e allo stesso livello era la n. 6.
Pagano ha offerto di queste Suites un’interpretazione classica ed equilibrata, che rivela un’ottima scuola (ha studiato al conservatorio romano e ora si sta perfezionando nelle migliori accademie) ma non è molto personale, d’altronde in Bach essere originali è una facile scorciatoia, mentre è molto più difficile impadronirsi totalmente e approfonditamente di questa musica e renderla in maniera superba, come fa questo giovane violoncellista, che già dimostra una maturità impressionante, tanto che ci si chiede fin dove potrà arrivare crescendo.
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