Sebbene giunta all’età più che venerabile di 89 anni, la morte di Wayne Shorter rappresenta un momento profondamente simbolico – oltre che doloroso – per il mondo del jazz.
Non solo perché Shorter è stato una delle figure più originali e straordinarie dell’universo creativo africano-americano, sia come sassofonista che come compositore – una figura la cui statura artistica si è rivelata con il passare del tempo sempre più unica e influente – e non solo perché ormai di protagonisti degli anni più intensi del jazz della seconda parte del Novecento ne sono, inevitabilmente, rimasti in vita pochissimi.
Ma anche e soprattutto perché l’incredibile miscela di caratura tecnica strumentale, visionarietà compositiva, intuito per l’innovazione, carisma e profondità di pensiero che ha innervato la carriera quasi sessantennale di Shorter è probabilmente qualcosa che difficilmente potrà ripetersi.
Non lo dico per miope nostalgia (sentimento che non mi appartiene), ma per evidenti ragioni collegate ai meccanismi di produzione e fruizione delle pratiche jazzistiche, che sono indubbiamente evolute verso dinamiche in cui, pur continuandosi a produrre musica bellissima e interessante da parte di musiciste e musicisti strepitosi, un altro Wayne Shorter, che diventa direttore musicale dei Jazz Messengers di Art Blakey a 26 anni, direttore musicale e principale autore del più strepitoso quintetto di Miles Davis a 31 anni, che fonda i Weather Report e poi dedica gli ultimi 20 anni a scavare dentro la formula del quartetto in modo esemplare, oltre a una carriera come leader strepitosa e a collaborazioni in alcuni dei dischi più iconici del jazz e del pop…
...beh non so voi, ma io ho impressione che non mi capiterà di vederlo e ascoltarlo.
Scrivendo queste righe che precedono mi rendo conto che ridurre a soli 10 dischi la scelta del tributo è impresa che nemmeno con la più buona volontà può essere anche solo lontanamente rappresentativa del percorso artistico di Shorter, ma in fondo trattandosi di un musicista così amato e popolare, la cui produzione è comunque ben rappresentata e presente sulle piattaforme di sharing o su YouTube, l’omaggio non può e non deve essere didascalico e quindi mi permetto di scegliere i 10 dischi shorteriani che – così a botta calda, ma domani potrei sceglierne altri – più hanno avuto importanza per la mia vita di ascoltatore e di professionista nel mondo del jazz, fiducioso che anche tutto il resto continui a venire ascoltato per moltissimo tempo.
1. Art Blakey, The Freedom Rider (Blue Note, 1961, pubblicato nel 1964)
Al repertorio dei Jazz Messengers di Blakey Shorter dona alcuni temi memorabili come “El Toro”, registrato nel 1961 nella formazione con ancora Morgan alla tromba (da questa seduta uscirà anche l’altrettanto intenso Roots And Herbs) e con uno Shorter che si lancia in un solo in cui prende il prestito dall’amico John Coltrane la tecnica sheets of sound. Un classico dell’hard-bop più evoluto.
2. Night Dreamer (Blue Note, 1964)
In quintetto con Lee Morgan alla tromba, McCoy Tyner al piano, Reggie Workman al contrabbasso e Elvin Jones alla batteria, il primo disco da solista per la Blue Note è una sorgente inesauribile di intensità e innovazione, in cui tutti gli ingredienti del jazz di quegli anni si presentano in modo eloquente.
3. Speak No Evil (Blue Note, 1966)
Registrato sempre nel 1964 (anno anche del bellissimo JuJu), con un paio di compagni di avventura nel quintetto di Davis come Herbie Hancock e Ron Carter, oltre alla tromba di Freddie Hubbard e ancora la batteria di Jones, una delle pietre miliari del decennio, in cui si fondono le articolate tensioni modali e l’immediatezza dell’hard-bop, ma dove c’è anche spazio per una ballad di bellezza lancinante come “Infant Eyes”.
4. Adam’s Apple (Blue Note, 1967)
La chiarezza sonora del quartetto (ancora Hancock e Workman insieme a un dinamicissimo Joe Chambers) esalta non solo la originalità di approccio solista dello Shorter sassofonista, ma anche il miracoloso equilibrio tra freschezza melodica, elasticità ritmica, senso del blues e apertura al futuro.
5. Miles Davis, Nefertiti (Columbia, 1967)
I dischi del quintetto di Davis con Shorter, Hancock, Carter e Williams sono tutti uno scrigno che non ci si stanca mai di esplorare. Tra le tante, immortali, composizioni di Shorter, scelgo Nefertiti e l’album omonimo, attraversato da una tensione formale e compositiva irrefrenabile. Qui i fiati continuano imperterriti a suonare il tema, mentre a improvvisare è la sezione ritmica…
6. Schizophrenia (Blue Note, 1967, pubblicato nel 1969)
In quella galassia (affascinante) di dischi Blue Note che si addentrano nelle esplorazioni formali e espressive più libere tipiche del periodo senza perdere di vista la coesione strutturale tipica dell’etichetta, Schizophrenia è una delle stelle più brillanti. Per i preziosi impasti timbrici con il trombone e il flauto (Curtis Fuller e James Spaulding pienamente nella parte), le tensioni solistiche, gli equilibri sempre sull’orlo di sfaldarsi, ma magicamente in volo.
7. Weather Report, Mysterious Traveller (Columbia, 1974)
Insieme a Joe Zawinul, Shorter (che ha adottato in modo massiccio il sax soprano e si ritaglia un ruolo di intelligentissima filigrana nel suono complessivo) è l’anima di questa band influente e rivoluzionaria, che attraverserà diverse stagioni di jazz elettrico. Tra le tante (e prima del periodo con Jaco Pastorius) mi colpisce sempre l’urgenza che si sprigiona come scintille dal disco Mysterious Traveller.
8. Native Dancer (Columbia, 1975)
L’incontro con il musicista brasiliano Milton Nascimento fa nascere questo disco di felicissima sintesi multiculturale, in cui la felicità melodica di Shorter trova nei colori e nei ritmi brasiliani, nonchè nella ormai acquisiti plasticità dell’equilibrio acustico/elettrico del decennio, un’immediatezza che farà scuola.
9. Petrucciani/Shorter/Hall, Power Of Three (Blue Note, 1987)
Bastano poche note per capire che questo incontro a Montreux con Jim Hall e il nemmeno venticinquenne Michel Petrucciani, che sulla carta poteva risolversi in una sorta di serata all-star da condurre in controllata prevedibilità, è in realtà un esuberante messa in gioco delle tre personalità, elegantissime ma anche profondamente energiche pur senza ritmica. Un classico di quel periodo, che riascoltato oggi colpisce ancora.
10. Footprints Live (Verve, 2002)
Quando all’alba del nuovo millennio, Shorter torna prepotentemente alla ribalta alla testa di un quartetto con Danilo Perez al piano, John Patitucci al contrabbasso e Brian Blade alla batteria, è una nuova epifania. I meccanismi del quartetto vengono smontati e rimontati in una ricerca che ha del miracoloso per la capacità di mantenere una forza narrativa dirompente pur nella massima astrazione. I concerti di quegli anni (a memoria ne ho visti 4 o 5) sono un’immersione sconvolgente non solo nella maestria strumentale dei quattro, ma soprattutto un inafferrabile rituale di bellezza.