Mariotti dirige la Messa da Requiem di Verdi all’Opera
La fondazione lirica romana ha inaugurato la sua stagione concertistica con due esecuzioni di questo capolavoro sinfonico-corale, una delle quali dedicata alla raccolta fondi per l’acquisizione di Villa Verdi
L’Opera ha inaugurato la sua stagione concertistica e questa è una buona notizia, perché da vari anni l’orchestra e il coro avevano perso ogni contatto con la pratica concertistica. Per il primo concerto è stata scelta la Messa da Requiem di Verdi, che nel passato era stata diretta con i complessi artistici del teatro da Toscanini, Giulini, Sinopoli, Prêtre, Chung e varie volte da Gianluigi Gelmetti, quando ne era il direttore musicale, e alla sua memoria il suo successore Michele Mariotti ha dedicato questo concerto.
“Modernissima è la partitura di Messa da Requiem, tanto che per certi versi ci appare anticipatrice di certe soluzioni orchestrali straussiane. Straordinaria nelle armonie, dominate, ricreate e utilizzate con quella invenzione già novecentesca che troviamo nelle ultime opere, Aida e Otello, fino a quel miracolo teatrale che è Falstaff”, afferma Mariotti. Ma questo suono “va cercato e costruito”. E ancora: “Messa da Requiem è una creatura operistica… Siamo in scena, senza che la profondità della preghiera ne esca sminuita”. Sappiamo per esperienza che quel che che direttori o registi dicono spesso non ha riscontro nei fatti, ma non in questo caso. Molto teatrale, ma certamente non nel senso deteriore del termine, è l’inizio: Mariotti resta con le braccia abbassate e non dà l’attacco all’orchestra, cosicché il pubblico inizialmente quasi non si accorge del pianissimo dei violoncelli, che sembra provenire da un altro, remoto mondo; poi entrano le voci maschili del coro, anch’esse appena percepibili, e quindi le voci femminili, sempre “sotto voce” ma ora chiaramente udibili, con un timbro di celestiale purezza. Potrebbe sembrare un preziosismo estraneo a Verdi, ma è lui che ha scritto “il più piano possibile” e allo stesso tempo “con espressione”, ed è esattamente quel che Mariotti, il coro e l’orchestra fanno, e lo fanno benissimo.
Al contrario Verdi scatena il coro e l’intera orchestra - con l’effetto dei timpani uniti o alternati alla grancassa, più esplosivo d’un tuono - nel Dies irae per ottenere un fortissimo mai udito prima: E l’ha avuto: Mariotti non risparmia sui decibel, ma non per ottenere un effetto plateale bensì per esprimere il terrore che infonde il pensiero dell’evento terribile e letteralmente apocalittico che secondo le scritture sovrasta l’umanità alla fine dei tempi.
Dunque il Requiem aeternam e il Dies irae sono totalmente opposti e Mariotti esaspera quest’opposizione, così come sottolinea la varietà e i contrasti delle varie sezioni e sottosezioni di questo capolavoro, che non ha paragoni nella musica sacra. Però non ne nasce assolutamente un senso di frammentarietà, perché i vari episodi sono tenuti insieme dalla loro formidabile potenza espressiva e drammatica, che bisogna mantenere sempre forte e tesa. Per ottenere questo risultato si deve capire il suono giusto, indicato con precisione da Verdi, e realizzarlo: Mariotti lo fa e ne è un esempio il suono sempre esatto dei vari ritorni del Dies irae, a cui Verdi dà ogni volta dinamiche e colori diversi. E trova anche l’appropriato rapporto tra testo e musica, fondamentale qui non meno che nel teatro di Verdi: a questo devono ovviamente contribuire anche le voci.
Il soprano è Eleonora Buratto, che è stata chiamata per una sostituzione d’urgenza ed è arrivata a Roma poco prima dell’inizio del concerto. La prima volta che i quattro solisti s’incontrano - nel Kyrie - la mancanza di prove insieme si avverte nella difficoltà a trovare il giusto equilibrio tra loro, ma bastano pochi minuti perché imparino a conoscersi e a rapportarsi sia per il tempo e la dinamica che per le intenzioni espressive. La Buratto ha una voce assolutamente omogenea in tutti i registri, duttile e sicura in ogni momento, che le permette di essere ideale nell’intera gamma vocale ed espressiva richiesta da Verdi al soprano, in particolare nel Libera me, dall’inizio col teso e drammatico recitativo sulla stessa nota, in ritmo libero e senza sostegno orchestrale fino all’estatico e disincarnato finale più che pianissimo (Verdi scrive ‘pppp’ e ‘morendo’) che chiude il Requiem. E al centro di questa grande scena drammatica per sorano e coro è impressionante come la Buratto sovrasti il fortissimo di centottanta voci e strumenti senza tradire il minimo sforzo.
La russa Yulia Matochkina ha una voce un po’ chiara per un contralto (infatti è un mezzosoprano) ma dal colore molto bello, timbrata e pura, e la usa con ottima tecnica e stile. Il tenore rumeno Stefan Pop canta l’Ingemisco come un’aria d’opera (questo è abbastanza comune e non è detto che sia totalmente sbagliato) ma sa anche alleggerire la voce e allora fa meraviglie in Hostias et preces, allo stesso tempo sensuale e mistico. Il georgiano Giorgi Manoshvili è molto giovane e la sua voce di basso giungerà a piena maturazione tra qualche anno, ma ha grandi possibilità, a partire da un bellissimo timbro: i suoi interventi sono stati sempre scolpiti e autorevoli, senza essere inutilmente e fastidiosamente tonitruanti.
Resta da dire degli ultimi due protagonisti. Ottimo il coro, che passa da pianissimo miracolosi (il maestro del coro Ciro Visco conosce tutti i segreti degli infiniti pianissimo possibili) a fortissimo terrificanti, senza mai incrinare la purezza del suono. Molto bene anche l’orchestra. Due o tre brevissimi momenti poco nitidi non hanno incrinato una prestazione che certifica il buon livello raggiunto dai complessi artistici dell’Opera e l’ottima sintonia raggiunta con i loro direttori Mariotti e Visco.
Il calore degli applausi e più ancora il lungo silenzio seguito alle ultime note dimostrano quanto siano stati emozionati e coinvolti gli ascoltatori che gremivano il teatro. E aggiungiamo volentieri un post scriptum: alla fine del concerto Mariotti ha fatto venire al proscenio il contrabbassista Gennarino Frezza, al suo ultimo concerto con l’orchestra prima della pensione, e il pubblico lo ha ringraziato affettuosamente per i tanti anni dedicati alla musica.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento
Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.