Tristan for dummies
A Nancy Tiago Rodrigues debutta nella regia lirica con Tristan und Isolde di Wagner fra qualche contestazione
Un archivio di mondi immaginari, di mondi esistiti, di mondi che potrebbero esistere, di mondi che esisteranno sempre e di mondi impossibili: è questo il luogo nel quale il regista Tiago Rodrigues, personalità di punta della scena teatrale europea e prossimo direttore del Festival di Avignone, fa rivivere la vicenda di Tristan und Isolde. È un’esedra di alti scaffali colmi di documenti (la scenografia è Fernando Ribeiro). Scaffali che vengono svuotati via via dai due infaticabili archivisti-mimi-danzatori (Sofia Dias e Vítor Roriz) che, uno via l’altro, mostrano al pubblico i cartelli sui quali sono scritte le moltissime parole che raccontano la vicenda dell’opera di Richard Wagner. Non sono le parole scritte da Wagner, ma quelle di un Tristan tradotto per il pubblico dallo stesso Rodrigues, che, ridotti all’osso o anche meno i versi wagneriani, interpola con considerazioni personali o, per così dire, filosofiche oltre che con qualche spiritosaggine sull’esagerata verbosità dell’originale ripetuta però troppe volte per divertire davvero. E il paradosso è che, alla fine, quella che dovrebbe essere una sintesi “ad usum Delphini” o, se si preferisce, un “Tristan for dummies”, finisce per essere più verbosa e drammaturgicamente insensata dell’originale, che invece un suo senso ce l’ha. Un esempio? “Le persone tristi hanno bisogno di molta musica. E di molte parole. Cantate in tedesco. Durante molte ore. Soltanto per parlare di amore”: è quello che si legge nei cartelli durante l’incanto della lunga notte d’amore di Tristan e Isolde, che magari è pure vero ma solo se si smette di ascoltare. Ma l’opera è anche – e forse soprattutto nel caso del Tristan – musica e a ignorare questa semplice verità si rischia di scivolare malamente e magari di rompersi le ossa.
Anche sorvolando sull’intenzione dissacratoria e una certa comprensibile insofferenza per la lunghezza di un monumento che indubbiamente può creare più di un problema a chi lo voglia mettere in scena accontentandosi di semplici “trouvailles” dal respiro corto, cosa resta di questo spettacolo? Poco. Resta il racconto di un amore che, per volerne sottolineare l’universalità, cancella l’identità dei protagonisti (Tristan è “l’uomo triste”, Isolde “la donna triste”, Brangäne “l’amica della donna triste”, Kurwenal “l’amico dell’uomo triste”, Marke “l’uomo potente” e Melot “l’uomo ambizioso”) ma finisce per diventare piuttosto banale e insopportabilmente noiosa nel faticoso succedersi di cartelli, anche se mostrati con un certo stralunato virtuosismo dai due mimi. E il risultato non può che essere quello di un racconto scenico immiserito, forzatamente didascalico (per costruzione), di un capolavoro che è molto più che la sua trama e la sua indisputabile lunghezza.
È chiaro che in questa realizzazione scenica dell’Handlung wagneriana, in cui quel che davvero conta è solo il “come” si racconta mentre il “cosa” resta mero accessorio, la direzione scenica dei cantanti non è che un dettaglio e nemmeno il più importante. Dunque, sul palcoscenico si va poco oltre una gestualità stilizzata e concettuale (per dirla così) e comunque ridotta al minimo sindacale (ma allora perché non trattare i cantanti come gli altri strumenti e metterli in buca con l’orchestra?).
Sul piano musicale le cose funzionano meglio, anche se inevitabilmente pesa l’approccio intellettualistico dell’allestimento. Limitando il giudizio alle pure voci, fra i due protagonisti, Samuel Sakker vince (specie nel terzo atto) per l’emissione morbida e ricca di colori, mentre Dorothea Röschmann, pur confermandosi interprete di carattere, convince molto poco come Isolde per le evidenti difficoltà nella tessitura acuta e una resa più che discontinua nel complesso. Gli “amici” dei protagonisti, Scott Hendricks e Aude Extremo, entrambi piuttosto estranei ai classici canoni wagneriani, possono comunque vantare una buona tenuta vocale pur con qualche forzatura, come anche il solido Marke di Jongmin Park. Interessanti le voci di contorno, cioè Peter Brathwaite, focosissimo Melot, e soprattutto Alexander Robin Baker, pastore e marinaio dalle apprezzabili venature liriche, mentre Yong Kim, un fragile timoniere a rischio di sfracellamento contro gli scogli vocali. Dimenticabile la prova del Coro dell’Opéra national de Lorraine.
Quanto alla direzione, non si può dire che Leo Hussain non provi a concedersi qualche raffinatezza, specialmente nel secondo atto e in una buona metà del terzo. Però il preludio passa quasi inosservato, dopo una quindicina di minuti di cartellonistica in silenzio, e il “Mild und leise” è talmente affrettato da polverizzarne l’esaltazione visionaria. Soprattutto, piacerebbe sentire di più l’Orchestra dell’Opéra national de Lorraine, specialmente nel mare di musica che travolge i due amanti nella notte d’amore: il lavoro sul suono si coglie ma si farebbe apprezzare anche di più se l’orchestra non fosse tenuta costantemente sullo sfondo.
Sala al completo (compresi i poco confortevoli strapuntini). Molti applausi agli interpreti con qualche sonora manifestazione di dissenso al team registico.
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