Catullo incontra la musica contemporanea a Nuova Consonanza
Cinque compositori mettono in musica i carmina del poeta latino
Il protagonista della serata inaugurale del cinquantanovesimo festival di Nuova Consonanza è stato Catullo. Sì proprio Gaio Valerio Catullo, il poeta vissuto nel primo secolo avanti Cristo. Che questo concerto basato sui suoi versi sia casualmente venuto a coincidere con le celebrazioni del centenario pasoliniano, che proprio in questi giorni stanno infittendosi anche in campo musicale, è qualcosa che fa pensare. Infatti anche Catullo come Pasolini – mutatismutandis, perché duemila anni di distanza significano pur qualcosa – fu attratto dal lato oscuro della città, lo frequentò e lo portò alla luce, descrivendo figure di emarginati e mettendo in piazza senza falsi pudori pratiche sessuali che anche allora la gente “per bene” disapprovava o faceva finta di disapprovare. La preferenza per questo mondo irregolare traspare chiaramente in molti suoi carmi, che a scuola non ci hanno fatto studiare. Ci hanno fatto studiare invece le sue poesie più raffinate, eleganti, colte. Tra le poesie considerate off limits era anche il Carmen nuptialis, perché, tra dotti riferimenti mitologici, eleganze alessandrine e delicate descrizioni della timida e virginea sposa, non mancano accenni erotici molto spinti.
Ma, tornando all’inizio, perché un poeta di duemila anni fa a Nuova Consonanza? L’idea è venuta ad Enrico Marocchini, che ha ideato questo progetto, ne ha coordinato la realizzazione e infine ne ha diretto l’esecuzione. Il titolo scelto per questa serata di brani musicali su testi di Catullo è Carmina nuptialia, perché il punto di partenza è proprio il succitato Carmen nuptialis. Marocchini ha invitato quattro compositori (il quinto è egli stesso) a scrivere ciascuno un pezzo che partisse da quei versi ma si allargasse anche ad altre poesie di Catullo. I compositori coinvolti erano tutti romani di nascita o d’adozione, ma sia chiaro che questo non significa che Nuova Consonanza è diventata campanilistica, perché i compositori di altre parti d’Italia e del mondo avranno il giusto spazio nei concerti successivi.
Certamente partire tutti da un unico testo - seppure accostandolo liberamente ad altri testi, ma sempre dello stesso poeta - comporta il rischio di una certa uniformità. Il rischio aumenta se tutti devono servirsi dello stesso piccolo gruppo di esecutori, per altro eccellenti: quattro voci del Ready Made Ensemble, tre percussionisti di Ars Ludi e tre ottoni (Luca Ginesti corno, Edoardo Olivellli tromba, Stefano Centini trombone). E poi c’è l’atout di quel grande attore che è Roberto Herlitzka come voce recitante. Ma, al di là di una qualche uniformità di superficie, le diverse personalità dei cinque compositori emergono comunque.
Ad aprire Carmina nuptialia è Fausto Sebastiani, con le percussioni chiamate ad evocare un mondo lontano, arcaico; poi entrano le quattro voci, dapprima appena percettibili, come voci che giungono da millenni di distanza con parole frantumate e sospiri esili, prima quasi lamentosi, poi erotici. Il compositore ha scelto tre delle poesie erotiche di Catullo più castigate, che esprimono il giovanile entusiasmo amoroso per Lesbia, lette da Herlitzka come quel grande attore che è, su uno sfondo strumentale neutro, che non vuole esprimere ciò che già dicono le parole ma immergerle in un’aura sonora. Tutto è discreto, raffinato (e poetico) come questo compositore che rifugge la retorica e preferisce non aggiungere mai una sola nota che rischi di risultare superflua. Enrico Marocchini inizia anch’egli con una breve introduzione strumentale, poi fa entrare il il quartetto vocale con i ritmi e anche i modi melodici (per quel che ne sappiamo o immaginiamo) della lirica latina, per noi lontani ed “esotici”: è un altro modo per indicare la siderale distanza temporale da cui giungono i versi di Catullo, che Marocchini ha scelto tra quelli più violenti, o perché spudoratamente osceni o perché ferocemente polemici contro la corruzione politica e in primis contro Cesare. Di conseguenza anche la musica, messe rapidamente da parte le suggestioni antiche, è aspra e violenta.
Matteo D’Amico inizia con un lever de rideau delle percussioni, che qui non rincorre suggestioni arcaiche: vi dà un importante contributo il suono del vibrafono, che crea un alone fiabesco, così come farà il suono lontano e favoloso del corno, che si aggiunge dopo poche battute. La parte per il quartetto vocale è più ampia che nei brani precedenti, assecondando l’attrazione del compositore per una “melodia” d’impronta irrevocabilmente (ma moderatamente) moderna.
Giovanni Guaccero ha ereditato dal padre - importante ed eretico esponente dell’avanguardia musicale della seconda metà del secolo scorso - qualcosa delle avanguardie di una o due generazioni fa, seppure abbondantemente diluito. È molto sintetico: qualche tocco atmosferico delle percussioni, alcuni fremiti di canto. E la ripresa finale dell’invocazione iniziale ad Imene rimanda a simmetria indubbiamente a simmetrie classiche più che moderne. Chiude Stefano Cucci, conosciuto più come maestro del coro che come compositore. Il suo pezzo è delicato, trasparente, evanescente (nell’accezione positiva del termine): un breve assolo del trombone con ampio uso del glissando, qualche passaggio un po’ puntillista delle percussioni, una piccola fanfara della tromba, un ripetuto rullo del tamburo. Forse un po’ esile.
Queste le nostre impressioni – riferite nel modo più succinto possibile – ad un primo ascolto di un’opera collettiva piuttosto lunga e complessa.
Enrico Marocchini dirige con cura e precisione. Impeccabili i già citati interpreti vocali e strumentali. Merita un applauso e un ringraziamento speciali Roberto Herlitzka per la sua preziosa partecipazione. Teatro pieno (come non avviene frequentemente per un concerto di musica contemporanea) e applausi convinti e prolungati.
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