L’Elektra di Pappano, violenta e parossistica
L’opera di Strauss, in forma di concerto, ha inaugurato la stagione di Santa Cecilia
L’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia è tornata a suonare a Roma, dopo quattro mesi esatti durante i quali non aveva fatto ascoltare una sola nota al suo pubblico naturale. Mesi per altro impiegati proficuamente in varie tournée in tutta Italia e mezza Europa. In compenso – diciamo così – per questo ritorno alla sua sede del Parco della Musica l’orchestra si è presentata veramente al gran completo, perché sono 126 gli strumentisti previsti da Richard Strauss per l’Elektra.
Quest’inaugurazione era purtroppo l’ultima per Antonio Pappano, che - com’è noto - alla fine della stagione lascerà la direzione musicale dell’orchestra romana. Ha dato l’opportunità a sir Tony di dirigere finalmente quest’opera di Strauss, che pure è tra le sue preferite, ma - come egli stesso ha raccontato con una punta di humour ma anche di rimpianto - le occasioni di dirigerla finora gli erano sempre sfuggite tra le dita per una serie di circostanze sfavorevoli. Anche l’orchestra non aveva mai suonato l’Elektra, ma questo non deve stupire, trattandosi di un’orchestra dedita all’attività concertistica. Comunque Santa Cecilia ha una grande tradizione straussiana, come conferma una piccola mostra nel foyer, dove tra l’altro si vedono i manifesti dei ben diciassette concerti diretti da Strauss stesso con l’orchestra dell’Accademia tra il 1906 e il 1936.
Dunque sia per il direttore che per l’orchestra era il debutto in un’opera spaventosamente difficile. In pochi giorni di prove bisognava assimilarne sia lo spirito sia la terrificante quantità di note - chissà se mai qualcuno ha provato a contarle - da suonare senza un solo attimo di pausa per due ore filate. Il risultato? Splendido.
Pappano ha impresso all’Elektra una tensione e una violenza mozzafiato: effettivamente è questa la cifra di quest’opera, ma non l’avevamo mai ascoltata portata così all’estremo. Il suono dell’enorme orchestra era sempre violento, teso, aggressivo. Questo non significa che fosse un continuo fortissimo, perché può essere spaventevole, raccapricciante, orripilante anche il pianissimo del sibilo strisciante - come una bava sonora - che accompagna l’uscita di scena di Clitennestra, che dentro di sé gioisce per la falsa notizia della morte di Oreste. Ma più spesso l’orchestra ha una forza tellurica annichilente: nella parossistica danza finale di Elektra, per esempio. Da esperto direttore d’opera Pappano riesce tuttavia a non coprire le voci, tranne in un paio di brevi momenti, ma questo è inevitabile con un’orchestra enorme come quella richiesta da Strauss.
La protagonista Ausrine Stundyte non ha d’altronde una voce torrenziale come le Elektra-Brünnhilde d’un tempo. La sua bellissima interpretazione, che non conosce un solo momento di calo di tensione, è basata principalmente sulla infinita varietà d’intenzioni e quindi di colori, di accenti, di dinamiche con cui dice e valorizza ogni parola (in perfetto accordo con Pappano, che dice: “il fascino del testo di Hofmannsthal mi colpisce non meno della musica di Strauss”) e in tal modo indaga e penetra la psiche di Elektra. E da ogni parola emana un’incisiva espressività, per quanto un ascoltatore italiano possa seguire solo parzialmente questo lavoro della Stundyte sul testo tedesco.
Eccellente anche l’interpretazione di Crisotemide da parte di Elisabet Strid, che esprime con una carnalità esuberante il suo bisogno fisico, vitale, insopprimibile di vivere la sua giovinezza di donna, che molte interpreti frenano pudicamente e che lei invece fa esplodere liberamente in frasi come queste: “Ho un fuoco qui nel petto… Ho bisogno di figli prima che sfiorisca il mio corpo, e se a un villano anche mi danno, i figli per lui metto al mondo e con questo mio corpo li scaldo nelle fredde notti”.
La terza, magnifica protagonista era Petra Lang. Anch’essa offre una lettura del suo personaggio un po’ diversa dal consueto: la sua Clitennestra non è la solita megera, cioè lo è, ma è una figura più sfaccettata, è anche una donna che si sente debole, si vede invecchiare, si autocompatisce, si sente circondata da essere ostili, fa sogni spaventosi, immagina di imputridire ancora viva, invoca la morte. Una grande interpretazione.
Elektra è una tragedia di donne, gli uomini sono poco più che comprimari: Oreste acquista statura drammatica solo al momento del riconoscimento e dell’abbraccio con la sorella, e qui Kostas Smoriginas fa benissimo la sua parte. Ineccepibile Neal Cooper, che canta Egisto con distacco, come a sottolineare che è un uomo da poco, che non merita niente di più.
Bene la schiera dei personaggi minori, tra cui dieci erano artisti del coro di Santa Cecilia, che sono stati perfettamente all’altezza di parti brevi ma non prive di difficoltà.
Alla fine il pubblico (molti posti però erano rimasti vuoti: sarà ancora uno strascico del covid?) è esploso in un grande applauso.
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