Donizetti e Mozart chiudono la stagione del Teatro La Fenice

Il teatro lirico veneziano presenta in contemporanea una debole Fille du régimente un fresco Apollo et Hyacinthus con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti

La fille du régiment
La fille du régiment
Recensione
classica
Venezia, Teatro La Fenice, Teatro Malibran
La fille du régiment, Apollo et Hyacinthus
07 Ottobre 2022 - 22 Ottobre 2022

Doppio appuntamento per la chiusura di stagione del Teatro La Fenice prima dell’inaugurazione il mese prossimo con il Falstaff verdiano con la direzione di Myung Whun Chung e la regia di un shakespeariano doc come Adrian Noble. Nell’attesa, mentre sul palcoscenico del Teatro Malibran gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia allestiscono la prima opera di un giovanissimo Wolfgang Amadeus Mozart, al Teatro La Fenice va in scena La fille du régiment, “piccola opera” composta da Donizetti per l’Opéra Comique nel 1840.

Raramente rappresentata nel teatro veneziano, l’opera di Donizetti vanta un solo precedente per l’apertura della stagione 1975-76, con protagonisti Mirella Freni e Alfredo Kraus diretti da Nino Sanzogno, quando, per una curiosa coincidenza della storia, allora come oggi si parlava di crisi energetica. Allora l’opera venne presentata nella versione italiana, mentre per la versione appena andata in scena si è scelta la versione francese. Scelta ovvia oggi ma problematica in un genere come l’opéra comique con le sue lunghe parti recitate alternate ai numeri musicali, e specialmente problematica in quest’opera dalla trama molto esile. Il problema è che se si sbaglia il tono o, peggio, si sconta qualche impaccio linguistico di troppo, il divertimento svapora e il rischio è che si affacci la noia. Un po’ stupisce che possa accadere se a dirigere la produzione ci siano due teatranti francofoni come André Barbe e Renaut Doucet (o, come da locandina, Barbe&Doucet) per di più con un rodato trascorso nel teatro leggero. Eppure … Distratti da un “Konzept” che nasce da una storia di famiglia, cioè dai ricordi della nonna novantanovenne di Doucet, infermiera in tempo di guerra, i due sembrano soprattutto concentrati a costruire sul palcoscenico il teatrino della memoria dell’anziana donna affastellando sul palcoscenico coloratissimi oggetti ingigantiti del suo trumeau (scatole di farmaci incluse). Lavorano meno sul ritmo, che soffre non poco specie nello strascicato secondo atto, e ancora meno sulla direzione degli interpreti e del coro, abbandonati a se stessi.

La musica, guidata talora con enfasi esagerata dal direttore Stefano Ranzani, comunque, procede fortunatamente per suo conto e, se resta qualcosa della natura brillante del lavoro è soprattutto grazie ad essa. Quanto agli interpreti, il migliore in campo per padronanza della scena e disinvoltura anche linguistica è il Sulpice di Armando Noguera risolto con gusto e misura. Al debutto nel ruolo, Maria Grazia Schiavo è una Marie ben resa soprattutto sul versante patetico ma è troppo trattenuta per risultare davvero convincente anche sul piano più brillante. Molto rodato è invece John Osborn nel ruolo di Tonio che risolve con grande disinvoltura vocale (compresa l’infilata di do di petto nella celebre “Ah! Mes amis, quel jour de fête!”) e altrettanta indifferenza alle ragioni della scena. Quanto a Natasha Petrinsky mette nella sua compassata Marquise de Berkenfield un’enfasi drammatica forse più adatta a Racine che a Bayard&Vernoy de Saint-Georges per risultare divertente, mentre piuttosto sfuocata e fuori posto è sembrata la pur simpatica e volenterosa Marisa Laurito, che è una Duchesse Krakenthorp dall’accattivante parlata napoletan-francese ma poco trascinante nonostante l’impegno nella popolare canzonetta “Arrivano i nostri a cavallo d’un caval” regalata alla festa di fidanzamento di Marie. Guillaume Andrieux come Hortensius, invece, regala a molti una lezione di stile. Non particolarmente encomiabile nemmeno la prova del Coro del Teatro La Fenice, spesso impreciso e piuttosto pesante.

Apollo et Hyacynthus

Se La fille del régiment parla di e alle nonne, una fresca ventata di giovinezza arriva dall’allestimento di Apollo et Hyacinthus curato dagli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, già attivi in abiti da lavoro a tracciare schizzi sui loro album quando il pubblico ancora prende posto nella sala del Teatro Malibran. Nel disegno della regista Cecilia Ligorio, gli stessi studenti sono infatti parte integrante dello spettacolo: lo costruiscono letteralmente davanti agli occhi degli spettatori e contemporaneamente sono attori della vicenda che affonda le radici nel mito di Ovidio, più che purgato, diluito dalla penna del benedettino Rufinus Widl in una trama complessa, che ne depotenzia l’evidente contenuto omofiliaco del legame fra il dio Apollo e il giovane Giacinto. Giocando con delle grandi lettere luminose dietro a un sipario trasparente o fondali dipinti con i graffiti poveri tipici del linguaggio della “street art”, questi attori silenziosi compongono una sorta di abecedario dei sentimenti, che scandisce i vari momenti della vicenda, nel latino del testo di Widl: AMOR, TIMOR, EROS, MORS, SORS, PIETAS, fino a quella METAMORPHOSIS decisa dal dio Apollo per veder rifiorire in ogni stagione lo sfortunato Giacinto.

Agile è anche la realizzazione musicale, che restituisce all’ascolto la gioiosa freschezza creativa di un sorprendente Mozart undicenne grazie alla aerea direzione di Andrea Marchiol. Se la scrittura orchestrale fa già intuire il genio che verrà, quella vocale è ancora molto legata al modello barocco con lunghe arie tripartite e generose variazioni. Più che opportuna quindi la scelta di un cast di esperti barocchisti come la coppia dei deuteragonisti Raffaele Pe, Apollo vocalmente spavaldo ma anche capace di accenti compassionevoli, e Kangmin Justin Kim, un Hyacinthus delicato come il fiore nel quale sarà metamorfosato. Accanto a loro, Barbara Massaro è una Melia luminosa e dalla voce agilissima, Krystian Adam un re Oebalus scenicamente maturo e dal bel colore vocale, mentre Danilo Pastore è uno Zephyrus meno marcante per via di una vocalità ancora acerba. Un piccolo gioiello molto festeggiato dal folto pubblico presente e una lezione giovane da non sottovalutare.

 

 

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