La vita e la morte si confrontano in "Alceste"
Grandezze e limiti dell’edizione romana del capolavoro di Gluck
La precedente edizione dell’Alceste di Gluck a Roma risaliva al lontano 1967. Quale Alceste? si chiederà subito il lettore del 2022, perfettamente consapevole che ne esistono due. Ma allora non ci si facevano queste domande. Infatti si mescolarono senza tanti problemi le due diverse versioni, quella viennese del 1767 in italiano e quella parigina del 1776 in francese. E si completò il tutto con ampi tagli, di cui fecero le spese soprattutto le danze. Verosimilmente l’idea era prendere il meglio delle due versioni. Allora sembrava la soluzione ideale, avvalorata da interpreti autorevoli quali Vittorio Gui, Giorgio De Lullo, Pierluigi Pizzi e Leyla Gencer.
Oggi tutto questo non sarebbe proponibile, perciò, quando si decide di portare in scena Alceste – e non capita spesso – si deve innanzitutto scegliere quale versione eseguire. A Roma si è scelta ora la versione parigina, che non si limita affatto a tradurre il testo dall’italiano al francese ma rielabora profondamente la versione viennese, eliminando alcune scene, aggiungendone altre ed inserendo ampi quadri di danza in ossequio al gusto parigino. Sicuramente molte parti della versione viennese vengono conservate dalla versione francese, ma subiscono anch’esse notevoli rimaneggiamenti. Tutto bellissimo. Ma così si perde la più pura espressione della cosiddetta “riforma di Gluck e Calzabigi”, iniziata con Orfeo ed Euridice e culminata proprio con Alceste, per la quale fu scritta quella dedica a Leopoldo d’Asburgo-Lorena che costituisce il “manifesto” della riforma e illustra con chiarezza, forza e concisione mirabili quel che Gluck (stimolato dal librettista Ranieri de’ Calzabigi) si proponeva di fare ed effettivamente fece.
Con la solenne monumentalità dell’architettura musicale, la bilanciatissima simmetria formale e l’unità tra le varie parti ottenuta grazie ai nessi tonali, il compositore conferì all’Alceste viennese una nobile e sublime grandiosità, degna dell’omonima tragedia di Euripide, che era stata la sorgente letteraria di questa “tragedia per musica”. Nella stessa direzione va il fondamentale ruolo del coro. Tutto questo però comporta anche una notevole staticità. Nove anni dopo, la versione parigina introduce una maggiore varietà grazie agli ampi quadri di danza, molto graditi al pubblico francese, ma non si limita affatto a questo e rende più incisivamente drammatici alcuni dei momenti culminanti dell’Alceste. Viene soppresso il coro finale del primo atto, che così si chiude in modo più intensamente drammatico con una nuova grande aria della protagonista, Divinités du Styx. È ampliata la sublime scena tra Alceste e Admète, che diventa il centro del secondo atto e dell’intera opera. È quasi interamente riscritto il terzo atto, in cui viene reintrodotto il personaggio di Hercule, l’eroe che vince con la forza (letteralmente a calci e pugni, secondo la regia vista a Roma) le divinità infernali, prima dell’intervento di Apollo, che a quel punto risulta superfluo. Inoltre l’orchestra è rafforzata tramite l’aggiunta dei clarinetti, dei tromboni e di una seconda coppia di corni, che rende più potenti e drammatici alcuni momenti culminanti.
Scegliere tra le due versioni è difficile. Si potrebbe propendere per il rigore, la purezza e l’unitarietà della versione viennese, ma se si rappresenta più spesso la parigina non è soltanto perché non si vuole correre il rischio di tediare il pubblico con l’aulica staticità della prima versione, ma perché effettivamente la seconda contiene, accanto a momenti un po’ ridondanti, molte splendide pagine e momenti più marcatamente drammatici.
Come già detto, anche a Roma si è scelta la versione francese, importando da Monaco di Baviera una produzione di grande successo, con regia e coreografia di Sidi Larbi Cherkaoui (le scene e costumi lineari ed essenziali erano di Henrik Ahr e Jan Jan van Essche) che nasce come coreografo prima che come regista e di conseguenza ha invaso con i danzatori (quelli della compagnia Eastman di Anversa, da lui diretta) non solo i quadri espressamente dedicati alla danza ma quasi ogni momento dell’opera. Cherkaoui fa un grande lavoro con i suoi ballerini e, nonostante lo stile moderno e geometrico delle coreografie, si vede che i movimenti sono a modo loro plasmati sulla musica di Gluck. Ma – è un giudizio personale – sono le premesse ad essere sbagliate. Il regista-coreografo afferma: «I ballerini sono testimoni di ciò che accade, ma più ancora ne amplificano la portata… Sono una personificazione di tutto ciò che deve accadere nella storia… Inoltre possono tradurre in gesti ciò che accade nella musica». In pratica ciò significa che i ballerini sono onnipresenti, sovrapponendosi continuamente ai solisti, al coro e all’orchestra e usurpandoli del ruolo che sarebbe loro riservato nell’espressione della tragedia. È una specie di raddoppio superfluo, perché non dice nulla di nuovo o di diverso, e allo stesso tempo prevaricatore, perché pretende sempre il primo piano, lasciando solisti e coro ai lati o sul fondo e quasi immobili. Ci sono anche momenti ben realizzati, quali la grande scena tra Alceste ed Admeto nel secondo atto, quando i ballerini si prendono un meritato momento di riposo, e la scena all’ingresso degli inferi presidiato da esseri mostruosi nel terzo atto. Ma un paio di momenti non modifica il risultato complessivo.
Succede così che il vero e profondo significato di questa tragedia passi in secondo piano e se ne percepisca solo il primo strato, ovvero l’amore di Alceste, che per salvare lo sposo si offre alla morte in sua vece: l’ennesimo esempio di amor e virtù coniugale spinti fino al sacrificio della vita, piuttosto lontano - a dire il vero - dalla sensibilità moderna In realtà l’Alceste forma con la precedente opera di Gluck, Orfeo ed Euridice, un dittico sul dolore insuperabile per la perdita della persona amata, cui è impossibile rassegnarsi. Nell’Orfeo Euridice è già morta all’inizio dell’opera e il suo sposo per riaverla scende nel mondo dei morti, invano. In Alceste Admeto è in punto di morte e, per salvarlo, la sua sposa non esita ad offrirsi alla morte al suo posto, ma anche questo non è possibile. Perché la morte di una persona amata è un dolore tanto atroce quanto irrimediabile, una prova estrema per cui i mortali tutti devono prima o poi passare. La morte di una persona amata è un’anticipazione della nostra stessa morte e passare per questo lutto significa anche capire che la morte è la fine naturale anche della nostra vita e imparare (no, non è possibile impararlo!) a convivere con questa cruda realtà. Che poi Amore in un caso e Apollo nell’altro giungano all’ultimo istante a risolvere la situazione, è un inevitabile tributo alla regola del lieto fine, che, nell’Alceste ancor più che nell’Orfeo, appare un’aggiunta esteriore e frettolosa.
I dubbi sulla realizzazione scenica, comunque applaudita da gran parte del pubblico, svaniscono quando si passa a parlare dell’esecuzione musicale, diretta da Gianluca Capuano con una consapevolezza stilistica, un’accuratezza e un equilibrio perfetti. Ha colto la profonda tragicità di questa tragedia (scusate ma non si può evitare la ripetizione) e, senza mai alzare i toni o ricorrere ad una drammaticità diretta ed estroversa di tipo romantico, ha lavorato sulle sottili sfumature, sulle inflessioni dolenti, sulle riflessioni ed esitazioni che aprono squarci illuminanti sui sentimenti profondi dei protagonisti. Bellissima anche la sua direzione delle danze, fluenti e nobili, senza manierismi pseudosettecenteschi. L’orchestra e il coro (ben preparato da Roberto Gabbiani) hanno seguito la sua bacchetta in modo complessivamente encomiabile, sebbene non siano troppo abituati a questo repertorio.
Ottimo anche il cast vocale, che aveva la caratteristica comune di evitare di dare a questi personaggi mitici, a questi eroi e a queste divinità una grandezza esteriore a base di toni altisonanti, perché non è lì che risiede la loro reale statura drammatica. Eccellente protagonista era Marina Viotti, che non ha un timbro naturalmente bello, ma questo non importa, perché il suo canto ben fraseggiato, interiorizzato ed intenso dà un grande intensità ad ogni frase di Alceste. Il suo sposo Admète era Juan Francisco Gatell: confesso che all’inizio un tenore leggero in questo ruolo mi è sembrato un mistcasting, ma mi sono dovuto presto ricredere ascoltando la calibrata eleganza del suo canto, che coglieva la dolorosa rivolta e la sofferenza profonda per la decisione della moglie di morire al suo posto. Luca Tittoto è stato prima un austero Grand Prêtre e poi un Hercule simpatico, non un eroe superpalestrato ma un ragazzotto un po’ manesco, che risolve le situazioni con maniere spicce ma efficaci, senza andare tanto per il sottile (questo personaggio, aggiunto nella versione parigina, ha effettivamente dei lati comici). Bene anche Patrik Reiter (Évandre), Roberto Lorenzi (Dieu infernal e Oracle) e Pietro Di Bianco (Apollon e Hérault d’armes). E bene anche i Corifei Carolina Varela, Angela Nicoli, Michael Alfonsi e Leo Paul Chiarot.
Teatro pieno, seppure non esaurito, e successo che si può ben definire caloroso, soprattutto considerando che non si trattava certamente di un’opera facile.
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