La Bibbia dei Lambchop
In The Bible Kurt Wagner/Lambchop ambienta la tradizione americana ai giorni nostri
Dovendo spiegare l’intestazione dell’album, Kurt Wagner – da sempre responsabile del progetto Lambchop – ha detto: «Non sono una persona religiosa, ma credo ci sia spiritualità in molte persone che non lo sono». Conta qualcosa l’età, ora 63 anni, probabilmente, e l’ombra della fine in lontananza.
Con ciò si confronta nell’iniziale “His Song Is Sung”, introdotta da una mesta e solenne ouverture orchestrale dal respiro cinematografico, cui subentra il canto carico di emotività che descrive una visita al padre ultranovantenne: “La stanza è più calda di quanto dovrebbe essere, dentro c’è luce a malapena” e lo trova “accasciato in poltrona”. Pensa sia morto, ma così non è, eppure s’interroga con umore crepuscolare: “Confesso di non avere uno scopo, non mi sto lamentando, adesso questi giorni sono a misura di numero, trenta estati da oggi”, conclude riferendosi a sé stesso. Un po’ troppo opprimente? Niente affatto. Subito dopo arriva “Little Black Boxes”: groove stile Saturday Night Fever, elegante e sornione, voce deformata in Auto-Tune, aggraziato coro femminile e una schietta dichiarazione d’amore (“La parte migliore della giornata è passare la notte con te”).
Benvenuti nel mondo stravagante della “braciola d’agnello”, dove tutto – o quasi – è possibile. In carriera da un trentennio, al principio – essendo originario di Nashville – nel solco del country, benché in versione “alternativa”, analogamente ai coevi Bill “Smog” Callahan e Will “Palace” Oldham, nel tempo Wagner ha ampliato il raggio espressivo fino a incontrare – a metà del decennio scorso – le sonorità elettroniche, prima nel derivato HeCTA e poi con Lambchop, negli album FLOTUS e This (Is What I Wanted to Tell You), datati rispettivamente 2016 e 2019, salvo ritrovare una certa “classicità” nel successivo Showtunes (2021), dal vago aroma Broadway.
Proprio quest’ultimo contiene le premesse di The Bible, che nella contabilità d’archivio occupa la sedicesima posizione. Allora è stata avviata la collaborazione con il pianista Andrew Broder e il produttore Ryan Olson (al quale era pervenuto attraverso il comune amico e collega Justin “Bon Iver” Vernon, a proposito di Auto-Tune in area “alternativa”…), entrambi residenti a Minneapolis.
Là, in un capannone industriale dismesso, si sono svolte le sedute di registrazione della Bibbia: dettaglio rilevante, siccome mai in precedenza il Nostro aveva tradito la capitale del Tennessee. Attorniato da una ventina di musicisti e scomodando ben tre ensemble corali, ha dato forma a una delle opere maggiormente ambiziose del suo curriculum intrecciando alcuni filoni della Tradizione Americana. Ecco ad esempio il jazz dall’accento latino fuso con le risonanze rhythm’n’blues dei fiati e voci femminili che esortano alla Misericordia in “Whatever, Mortal” e altri echi afroamericani – dal controcanto gospel alla citazione del titolo, omonimo a quello di un brano firmato da Blind Blake nel 1929 – si percepiscono in “Police Dog Blues”, sintonizzato sulla frequenza di Black Lives Matter.
Né poteva mancare all’appello il beneamato country, qui simboleggiato dal riverbero della steel guitar durante la deliziosa “Dylan at the Mousetrap” e dall’evocazione di una figura totemica (“Ho fatto irruzione nella bara di Hank Williams”) al culmine di “Every Child Begins the World Again”. E cammin facendo ci s’imbatte in “una lunga serenata in dissolvenza”, com’è definita dall’autore in un verso la malinconica “Daisy”, e nel pathos da preghiera laica di “So There” (“Essere dolce, essere onesto, essere gentile, per accogliere l’imprevisto con mente inappagata”), altro episodio di natura intimista.
In definitiva, si afferma all’epilogo: “That’s Music”. Basterebbero quei cinque minuti a condensare il significato dell’intero lavoro: la controllata opulenza degli arrangiamenti, una sensazione di sacralità e il gusto del racconto. “Il futuro è importantissimo, questa è una ballata di un nerd della musica country”, esordisce il testo, che cita quindi – emulando De Lillo – Tommie Smith (“la scienza della velocità”) e l’Opry della città natale.
Gran disco, insomma.