La serie di Danny Boyle sui Sex Pistols è davvero brutta

Pistol, dedicata al mito del punk, rivela l'incapacità di portare sullo schermo la storia del rock senza banalizzarla

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Uscita nel primo mondo già a giugno scorso, dall’8 settembre è disponibile anche in Italia (su Disney+) la miniserie in sei puntate di FX Pistol, dedicata ai Sex Pistols e diretta da Danny Boyle.

Per quanto le vicende della “grande truffa del rock’n’roll”, di Sid Vicious, Malcolm McLaren, Johnny Rotten e “Anarchy in the UK” siano già state al centro di diversi film – dal classico The Great Rock and Roll Swindle di Julien Temple a Sid and Nancy, a vari documentari – c’era, almeno da parte mia, una certa aspettativa. Che cosa sarà in grado di fare il regista di Trainspotting e 28 giorni dopo (ma anche, parlando di film sulla musica, del delizioso Yesterday) alle prese con la grande epopea del punk inglese?

La risposta è – ingenuo io a crederci anche questa volta – trasformarla in un ibrido a metà fra Dawson’s Creek, ma con più droga, e un inserto de La Repubblica sul punk, ma con più parolacce. E se vi sembra una combo potenzialmente interessante, beh non lo è.

Prima di rimanere deluso (sciocco io) avrei dovuto verificare come il creatore e sceneggiatore di Pistol sia Craig Pearce, l’uomo che ha macinato la carne per il polpettone di Baz Luhrmann su Elvis, uscito nella prima parte dell’anno. (E che pure registicamente, nei confronti di questo povero Pistol e della sua estetica lo-fi che incorpora video d’epoca e punta su un finto formato pellicola vintage, era pura avanguardia).

Pistol (che in italiano si potrebbe tradurre «Pistola», perfetto per il mercato lombardo) si basa sul memoir del chitarrista del gruppo Steve Jones, Lonely Boy. La vicenda è dunque narrata perlopiù dal suo punto di vista, e Jones vi gioca il ruolo del protagonista (soprattutto nelle prime fasi: poi il tutto si sfilaccia inesorabilmente).

Si tratta comunque – un disclaimer mette le mani avanti all’inizio di ogni puntata – di una storia ispirata dalle vicende originali. Inutile dunque puntare il dito contro le “licenze poetiche” – che sono davvero moltissime, e riguardano la cronologia degli eventi ma anche l'invenzione di sana pianta di episodi a scopo drammatico (tipo Nancy che viene rispedita negli Stati Uniti per allontanarla da Sid, o lei che ritorna proprio durante la celebre performance di "God Save the Queen" sul Tamigi per un grande momento romantico).

È invece interessante riflettere sull’operazione in sé e sulle scelte della produzione, perché fanno emergere alcune tendenze nel modo di raccontare la storia della musica pop sullo schermo che – mi sembra – stiano diventando tipiche di questi ultimi anni.

– Leggi anche: I 10 cliché dei film sul rock in Bohemian Rhapsody

Fenomenogia dello spiegone e dell'epifania

Uno dei problemi principali della costruzione della trama di Pistol – e che si ritrovava già ad esempio in Bohemian Rhapsody, il film sui Queen – è che procede continuamente per epifanie e spiegoni. Al minuto 10, per dire, il conteggio è già di almeno 2-3 epifanie e altrettanti spiegoni.

Che cos’è un’epifania? È quando una svolta viene giustificata con una improvvisa illuminazione di uno dei protagonisti. Certo, è un meccanismo piuttosto comune che permette di portare sullo schermo passaggi che magari, nella realtà, hanno occupato giorni o settimane. In Pistol (e in molti film musicali) però le epifanie sono sempre orrendamente goffe. Come si inventa il nome d’arte Sid Vicious? Semplice. Un criceto di nome Sid morde il dito del futuro bassista dei Sex Pistols, che invece di esclamare «Acciderbola!» «Poffarre!» o qualunque altra esclamazione punk reagisce dicendo, con grande aplomb: «Sid’s really vicious» (Sid è veramente cattivo).

Lo spiegone invece è quando lo sceneggiatore scrive dei dialoghi che nessuno pronuncerebbe mai nella realtà, ma che servono a vari scopi, come spiega molto bene qui il mio punto di riferimento in materia Stanis La Rochelle.

Pistol, troppo impegnata a usare la sceneggiatura per sviluppare vicende amorose e infanzie complesse, ogni tanto – a caso – decide di voler essere un documentario sul punk e infila in mezzo ai dialoghi dei pipponi sul valore sovversivo di quello che stiamo vedendo o ascoltando.

Per esempio Malcolm McLaren – interpretato da un Thomas Brodie-Sangster molto efficace nel ruolo del nerd fastidioso – prende molto sul serio il suo ruolo di agitatore anarchico, e passa metà del suo tempo sullo schermo ad agitare e l’altra metà a spiegare agli altri personaggi che cosa sta facendo e perché. Quello che spiega, purtroppo, è molto al di sotto del livello Wikipedia, e quasi sempre pleonastico. «Ecco vedi? Questa è una svastica. Ma non siamo nazisti!», o qualcosa del genere.

Pistol Danny Boyle

Siamo così, dolcemente complicate

Danny Boyle in alcune interviste ha posto una certa enfasi su come Pistol racconta la componente femminile. Vivienne Westwood, ad esempio, è raffigurata come la vera ideologa del movimento, delle cui tesi si appropria il maschio tossico McLaren.

È evidente però l'intervento coatto sulla sceneggiatura per far emergere un protagonismo femminile nella vicenda... che si risolve nel goffo tentativo di fare occhiolino allo spettatore dicendogli «Vedi? Siamo per la parità di genere».

In realtà, il punk è stato un movimento con una forte componente femminile e femminista (vedi alla voce “Siouxsie”, che in Pistol appare ma come personaggio molto marginale, o “Slits”). Bastava probabilmente spostare il fuoco su quegli elementi… e invece, Boyle e Pearce tirano dentro la futura cantante dei Pretenders Chrissie Hynde (Sydney Chandler), che fu per breve tempo commessa da SEX, la boutique di Westwood dove si formarono i Sex Pistols. Come prima cosa, la mettono al centro di una storia d’amore (inventata) con Steve Jones, occasione per mostrare un po’ di scene di sesso in molte posizioni. Davvero molte scene di sesso. E in molte posizioni.

E poi le ritagliano un personaggio frustrato di giovane musicista donna emarginata dagli uomini cattivi. Che di per sé potrebbe pure avere un senso, se non fosse che la cosa è portata avanti in maniera così impacciata da far sorridere. Come quando, a margine di una scena completamente non collegata, Hynde telefona a «Mick» (che sarebbe Mick Jones, futuro Clash con cui effettivamente collaborò brevemente, e che non compare mai in Pistol). La ascoltiamo dire alla cornetta, con espressione da Bambi: «Ah… ok… una line-up di soli uomini, capisco».

Pistol

Famiglia: buona. Yoko Ono: cattiva

Dopo 15 minuti dall’inizio della prima puntata di Pistol, l’illusione che si possa raccontare la vicenda di musicisti rock senza mettere in mezzo un complesso rapporto con la figura paterna è già svanita. Sembra che l’unico modo di conferire spessore a un personaggio sia quello di mostrare continui flashback sfocati di maltrattamenti, violenze e infanzie travagliate (con tanto di trenini elettrici e orsacchiotti trasformati in nascondigli per l’eroina).

È allora sempre e inevitabilmente il gruppo, la band, a diventare un surrogato di famiglia (ovviamente tutta maschile) la cui unità deve essere rotta da un antagonista che isola un membro all’interno di un nuovo rapporto, possibilmente tossico. Nel film sui Queen si era praticamente dovuto inventare un fidanzato per Freddie Mercury, nel caso dei Sex Pistols la Yoko Ono della situazione era già bella e apparecchiata. Nancy Spungen, per come è interpretata da Emma Appleton, a tratti sembra più un supervillain Marvel che una tossica tormentata. Per dire, una delle sue prime battute è la ferale «I was chocked at birth by my umbelical chord, and was diagnosed schizophrenic». Una delle prime cose che chiunque direbbe per presentarsi a una persona che non conosce, no?

(C’è da dire però che per alleggerire il tutto, lo sceneggiatore ha aggiunto una grottesca linea comica, con Nancy ritratta sulla tazza del water, con tanto di rumori da cinepanettone).

Davvero è questo l’unico modo di raccontare la storia del rock?

John Lydon, che non è stato incluso nella lavorazione di Pistol, ha cercato di portare tutta la produzione in tribunale, definendo fra le altre cose la serie una «fantasia middle-class» e una «favola, con poca somiglianza con la realtà».

È difficile dargli torto, su entrambi i punti. Come ha notato Eileen Jones su Jacobin (il pezzo si può leggere in italiano su Internazionale), il messaggio di rottura e l’innovazione del punk escono profondamente sminuiti dalla narrazione di Danny Boyle.

Di per sé, gli adattamenti della realtà ai fini della messa in scena non sono il problema: i Sex Pistols sono ormai un mito, e i miti vengono continuamente rielaborati. Il problema è che le rielaborazioni introdotte non puntano a costruire una tesi, a sfidare una narrazione, a proporre uno sguardo critico di qualche tipo. Sembrano architettate unicamente per raccontare, per l’ennesima volta, la stessa identica storia che abbiamo visto raccontare in infiniti film musicali.

«Le licenze poetiche sembrano architettate unicamente per raccontare, per l’ennesima volta, la stessa, identica storia che abbiamo visto raccontare in infiniti film musicali».

L’epica del punk, il cui senso era proprio quello di essere diversa dalle precedenti epiche del rock, viene cioè addomesticata in una vicenda melò fatta di patrigni violenti e personaggi bidimensionali, con l’obiettivo – immagino – di renderla interessante al pubblico. Era però ovviamente molto più interessante prima, nella sua originale problematicità, che davvero poteva trovare una qualche risonanza con gli spettatori e le spettatrici, anche quelli più giovani, che non hanno conoscenza di prima mano dei fenomeni culturali narrati.

Sullo schermo ci sono Elvis, i Queen, i Sex Pistols, ma potrebbe esserci chiunque, perché la storia è sempre quella, i personaggi sempre quelli, la fine – drammatica, ma con uno spiraglio di redenzione – sempre uguale. Sempre uguali le scene che riprendono i filmati d'epoca, ricostruiti con meticolosa dovizia da registi-nerd che imitano i movimenti di camera originali e attori che più che interpretare i propri personaggi sembrano imitarli come se fossero allo Zelig (sì, sto parlando di te Rami Malek).

«I cliché usati per costruire queste narrazioni, sempre più usurati e giusto rinfrescati da una mano di femminismo o di gender equality, nel profondo rimangono inevitabilmente borghesi».

È preoccupante questa sorta di gentrificazione della narrazione del rock, in cui ogni cosa deve sempre essere ricondotta a una confortevole abitudine, con l'espulsione di tutto ciò che è problematico, ambiguo, brutto, sfumato. I cliché usati per costruire queste narrazioni, sempre più usurati e giusto rinfrescati da una mano di femminismo o di gender equality, nel profondo rimangono inevitabilmente borghesi.

Non è un buon servizio per nessuna storia raccontata, meno che mai per la storia del punk. Se non siamo più in grado di inventare storie, dovremmo almeno provare a non guastare quelle che già abbiamo, no?

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