La Spagna al Festival delle Nazioni
Dagli echi andalusi di Turina e Albéniz alla musica delle missioni nell’America del Sud, uno sguardo a trecentosessanta gradi sulla musica spagnola
Quest’anno il Festival delle Nazioni, che da cinquantacinque anni si svolge a Città di Castello e in altre località dell’Alta Valle del Tevere, è dedicato alla Spagna, la cui musica inflazionava le sale da concerto ala fine del diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo, al punto da spingere Erik Satie a protestare contro questa moda con il suo brano ironicamente intitolato Españaña. Ora invece musicisti di vaglia come Enrique Granados ed Isaac Albéniz sono snobbati, la loro musica è quasi scomparsa dalle sale da concerto e dai teatri e, le rare volte che viene eseguita, è per lo più trascritta per la chitarra, considerata lo strumento ideale per renderne il carattere spagnolo mentre invece tradisce questa musica, il cui valore va ben oltre il colore locale.
Perciò è stata una succulenta occasione il concerto di musiche spagnole nella versione pianistica originale presentato nel Teatro degli Illuminati di Città di Castello da Alex Trolese, uno specialista di questo repertorio, a cui ha dedicato svariate incisioni discografiche. A dire il vero, il caso delle Danzas Fantasticas op. 22 di Joaquin Turina è controverso, perché il compositore le scrisse originariamente per il pianoforte ma poi le trascrisse per l’orchestra ed è in questa seconda versione che le presentò al pubblico. Effettivamente la scrittura molto densa - la si potrebbe definire sovraccarica di note - di queste tre danze aspira ad una ricchezza di colori di tipo orchestrale, che Trolese si è impegnato a trasferire sul pianoforte. Indubbiamente pianistiche sono invece le danze di Iberia di Isaac Albéniz, che era non solo uno dei maggiori compositori spagnoli ma anche un grande virtuoso del pianoforte di scuola lisztiana. Questo fa intuire quanto le due danze scelte da Trolese in quella raccolta, El Albaicin e Jérez, siano tecnicamente difficili, soprattutto la seconda; ma ancora più difficile è renderne gli effetti coloristici: un piccolo ma prezioso e stupefacente dettaglio sono i lampi luminosi che Trolese ha fatto balenare in Jérez. Manuel De Falla, più giovane di Turina e Albéniz, aveva rotto i ponti con l’Ottocento, era saldamente agganciato alla musica europea del primo Novecento e nell’originalità della musica popolare spagnola trovava nuovi stimoli musicali, andando oltre l’aspetto puramente pittoresco. Anche nella sua raramente eseguita Fantasia Bética restano tracce della musica andalusa e del ritmo del fandango ma a predominare sono un rigore intellettuale e una complessità strutturale novecentesche: un lavoro magistrale ma non facile per l’ascoltatore e tanto meno per l’esecutore. Le musiche di questi tre autori - così come la Rapsodie espagnole di Ravel, che stava a dimostrare il fascino che la musica spagnola esercitò sui compositori dell’epoca, particolarmente francesi - erano strapieni di note, per le quali dieci dita sembrano decisamente poche. Tra loro, come una gradita oasi di riposo per l’esecutore e per gli ascoltatori stavano due brevi brani tratti da Cançons y dansas di Federico Mom,pou, che viene spesso considerato un compositore francese più che spagnolo perché studiò e visse a lungo a Parigi e non subì la pericolosa attrazione del colore andaluso, a differenza dei rappresentanti della scuola musicale spagnola. Può essere sommariamente descritto come uno Chopin impressionista, dunque, poiché si spense nel 1987, può ben essere definito anacronistico, considerando che questo termine ha oggi perso la sua valenza negativa. I suoi pezzi di formato miniaturistico eseguiti da Trolese erano forse un po’ esili ma indubbiamente preziosi e fascinosi, cosicché si capisce perché un pianista estremamente selettivo nelle sue scelte come Arturo Benedetti Michelangeli ne avesse alcuni in repertorio. Ai calorosi applausi Trolese ha risposto con due bis scelti tra i più popolari e pittoreschi della musica spagnola, Granada di Albéniz e Danza ritual del fuego di Falla.
Ventiquattro ore dopo ci si trasferiva nella vicina chiesa di San Domenico ma in realtà si compiva un balzo di tre secoli indietro e di qualche migliaia di chilometri a sud ovest, fino alle missioni gesuitiche della zona del Rio de la Plata. Chi non ricorda Mission di Joffe? Nel film le musiche erano di Morricone, ma qui si sono recuperate le musiche originali, molto suggestive perché ci vengono da un mondo così remoto ma anche perché furono create in un contesto unico e molto diverso - anche se non va troppo idealizzato - dalla conquista rapace e sanguinaria e dall’asservimento delle popolazioni locali che contrassegnarono altrove la colonizzazione dell’America.
Ad aprire il concerto erano le voci di un piccolo coro, che avanzando in processione verso l’altare cantavano un canto devozionale anonimo, il cui testo mescolava il latino al chiquitano, la lingua dei nativi di quella zona: semplice e suggestivo. Seguiva la Misa a Sant’Ignacio di Domenico Zipoli, un fratello laico della Compagnia del Gesù, che, già affermatosi come compositore in Italia, fu inviato dai superiori nell’America del Sud: è un bel lavoro nello stile concertante della fine del diciassettesimo secolo, quindi un po’ in ritardo rispetto all’Europa, dato che è stato scritto all’inizio del Settecento. È stupefacente pensare che le parti vocali fossero sostenute dai nativi, al pari degli strumenti a fiato che raddoppiavano i due violini e il basso.
I chiquitani non solo cantavano e suonavano ma anche componevano: sarebbe stato un chiquitano, naturalmente restato anonimo, l’autore dei due brevi brani strumentali che precedevano la composizione più sorprendente del concerto, ovvero Sant’Ignacio, “opera sacra” attribuita anch’essa ad anonimi chiquitani ma con l’intervento di Zipoli e dello svizzero Martin Schmid. È una vera e propria opera - soltanto più breve, in due soli atti - in stile italiano ma in lingua castigliana, che riprende alcuni momenti tipici dell’opera seria dell’epoca, come la virtuosistica aria di furore di Ignazio (soprano) contro il Diavolo e il duetto d’addio tra lo stesso Ignazio e l’amico Francesco Saverio, con le sue infinite ripetizioni della stessa tenera frase, la cui affettuosa melodia è completata da una dolente armonia. L’argentino Gabriel Garrido, il più attento ed attendibile interprete di queste musiche, dirigeva il suo Ensemble Elyma, che ha sede a Ginevra ma è formato da cantanti e strumentisti provenienti da tutto il mondo.
Nel pomeriggio si era svolto il concerto dei finalisti Concorso Alberto Burri per gruppi giovanili di musica da camera. Il fatto che a due vincitori - il Caravaggio Piano Quartet e il Quartetto Werther - delle precedenti quattro edizioni sia stato poi assegnato il Premio Farulli della critica musicale italiana come miglior giovane gruppo cameristico, ha indubbiamente contribuito al prestigio di questa giovane manifestazione, aperta anche a formazioni insolite, che non trovano spazio in altri concorsi. È proprio questo il caso del Sirius Accordion Trio, vincitore di questa edizione (gli altri due finalisti erano il duo di chitarre Striago e il classico trio violino, violoncello e pianoforte Aeonium, anch’essi di ottimo livello). Il gruppo vincitore ha dimostrato un grande virtuosismo nello sfruttamento della fisarmonica, che negli ultimi anni ha fatto enormi progressi dal punto di vista costruttivo ed esecutivo, conquistando una straordinaria ricchezza di colori e di effetti che si presta magnificamente alle richieste della musica contemporanea. Certamente un trio di fisarmoniche è una mosca bianca e la strada per affermarsi non sarà facile, ma i tre ragazzi del Sirius potranno portare una ventata di aria nuova nelle sale da concerto.
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