La musica somatica di Kaitlyn Aurelia Smith
In Let’s Turn It into Sound la compositrice statunitense crea un Paese delle Meraviglie per l’era del Metaverso
Giunta all’ottava tappa discografica della sua carriera, escludendo dal conto le collaborazioni con Suzanne Ciani (Sinergy, 2016) ed Emile Mosseri (I Could Be Your Dog, 2021), Kaitlyn Aurelia Smith sembra voglia enfatizzare in Let’s Turn It into Sound le polarità opposte della propria ispirazione: da un lato la vocazione colta, testimoniata dai galloni accademici ottenuti al Berklee College of Music of Boston e al conservatorio di San Francisco, e dall’altro un’intenzione pop espressa finora in maniera piuttosto reticente, più in The Kid (2017), a dispetto dell’onere tematico gravante su quel lavoro (un racconto dell’esistenza umana dalla nascita alla morte), che nel successivo The Mosaic of Transformation (2020), incapsulato in una dimensione olistica a un passo dalla New Age.
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Nell’occasione, invece, il suono si sviluppa con maggiore libertà d’azione, seguendo l’intento programmatico: indurre cioè una riflessione su comunicazione e linguaggi. «L’arte è somatica, anche se viene percepita in modo cerebrale», ha dichiarato preventivamente la trentacinquenne compositrice statunitense, che al disco ha affiancato un libriccino complementare intitolato appunto Somatic Hearing. Applicandosi all’ascolto, gli esiti di tale evoluzione si colgono nell’espansione delle parti vocali, ancorché trattate elettronicamente, e degli impulsi ritmici: esemplare è in questo senso “Is It Me or Is It You?”.
Nonostante si tratti dell’episodio di spicco in termini d’immediatezza, ostenta comunque un’architettura complessa: quasi da sinfonia in miniatura nel movimento transitorio delle varie fasi costitutive. Presentando l’opera, l’autrice ha affermato: «L’album è un puzzle».
Valutazione applicabile in verità alla fisionomia di alcune tra le singole tessere che lo compongono. Prendiamo “Unbraid: The Merge”: si apre con solennità ambient per sfociare in un surreale intermezzo polifonico, cui subentra poi una marcetta irridente che culmina in un finale di squisita leggerezza melodica (tutto quanto in cinque minuti e mezzo scarsi). Oppure ecco l’iniziale “Have You Felt Lately?”: introdotta da una nevrotica musichetta da videogioco, sterza verso una filastrocca avveniristica, accenna una polifonia di scuola minimalista, finché a scuoterla arrivano spasmi sussultori di marca Warp (fra Oneothrix Point Never e Aphex Twin, per intendersi).
Al solito, ingrediente principale nella dotazione strumentale sono i sintetizzatori modulari brevettati negli anni Sessanta da Dan Buchla, dei quali Smith s’invaghì perdutamente in gioventù («I più umani che ci siano», disse motivando la fascinazione subita), particolarmente in evidenza negli arpeggi preliminari di “Check Your Translation” e nei ghirigori avant-garde che decorano “Pivot Signal”. Benché non sia esattamente di “facile ascolto”, Let’s Turn It into Sound è un’avventura musicale avvincente e incantevole come una fiaba, tipo un viaggio in un Paese delle Meraviglie nell’era del Metaverso: suggestione evocata del resto dai video di corredo.