Un teatro orientato alle creazioni, alle opere nuove. Un teatro che ama assumersi dei rischi. È la Dutch National Opera (DNO) secondo Sophie de Lindt, sovrintendente del teatro dopo l’incarico durato trent’anni di Pierre Audi.
Nata a Rotterdam ma cresciuta a Ginevra, è oggi una delle poche donne alla guida di un teatro lirico in Europa. È approdata alla guida del più importante teatro lirico dei Paesi Bassi e uno dei più importanti in Europa dopo essersi misurata con diverse professioni nel mondo della lirica. A Ginevra è assistente personale dell’allora direttrice generale Renée Auphan, prima di lavorare accanto a diversi registi in varie istituzioni musicali internazionali (fra queste, il Festival di Bayreuth, New National Theatre di Tokyo e il Festspielhaus di Baden-Baden) e come talent scout di giovani artisti in alcune fra le più prestigiose agenzie in Europa. Ad Amsterdam è arrivata dopo diverse stagioni come direttore artistico dell’Opernhaus di Zurigo.
Come gli altri teatri del continente, anche la DNO si appresta a voltare pagina dopo la pesante pagina della pandemia presentando un programma finalmente completo per la prossima stagione. Delle sfide ma anche delle opportunità della pandemia, dei programmi e di molto altro abbiamo parlato con Sophie de Lint in questa intervista esclusiva per i lettori del gdm il giornale della musica.
La prossima stagione sarà la sua terza alla guida della DNO. Le prime due sono state sconvolte dalla pandemia che ha costretto tutti i teatri a rivedere programmi e ad operare in una modalità finora inesplorate. Cosa ha imparato da quell’esperienza per molti versi traumatica?
«In effetti sarà la mia quarta stagione alla DNO. Ho assunto l'incarico nel settembre del 2018, con un periodo di transizione di due anni, cioè nelle mie prime due stagioni ho portato a termine le produzioni decise dal mio predecessore Pierre Audi, mentre la seconda era fatta un mix di produzioni di Pierre e mie, e dalla stagione 2020/21 sarei stata la sola responsabile della programmazione. Quando nel marzo del 2020 è arrivato l’enorme shock della pandemia, pensavamo tutti sarebbe durato solo poche settimane. Presto però abbiamo capito che il problema era molto più grande e che avremmo dovuto adattare il nostro metodo di lavoro alla nuova situazione».
Il cambiamento più significativo nell’attività della DNO?
«A causa dell’impossibilità a viaggiare e a spostarci, ci siamo improvvisamente trovati a dover lavorare dentro i confini nazionali e questo ha aperto delle prospettive del tutto nuove nel mio lavoro, abituata com’ero a essere sempre in viaggio da vera “international opera Lady”. Stabilire contatti e concentrarci sui talenti locali e sulle nuove generazioni di talenti di questo paese lo considero un aspetto molto positivo di quel periodo. Costretti a cancellare tutti i titoli principali della stagione, ci siamo posti la domanda: chi soffre di più in questa enorme crisi? E la risposta è stata chiara: la generazione più giovane. I giovani hanno bisogno di crescere in ogni senso e per questo occorre dedicar loro una cura speciale».
«I giovani hanno bisogno di crescere in ogni senso e per questo occorre dedicar loro una cura speciale».
«Quindi abbiamo deciso di aprire la scena alle forze più fresche del paese. È stata una decisione importante, che ci ha arricchito. Abbiamo ovviamente definito delle coordinate, e poi abbiamo detto loro: “È la vostra occasione di farci vedere il vostro talento, di mostrarci come volete lavorare, di come volete creare, e di dirci quali sono le storie che avete necessità di condividere e con chi.” In sostanza, li abbiamo fatti diventare dei co-curatori dei progetti. Anche per me come sovrintendente è stata una straordinaria fonte di ispirazione e anche una lezione a fidarsi di loro. È stato un percorso di quelli che arricchiscono. E ora cerchiamo di continuare a lavorare in quella direzione».
La lunga chiusura ha cambiato qualcosa nei meccanismi produttivi del teatro?
«Negli scorsi due anni nei Paesi Bassi siamo entrati e usciti continuamente dal lockdown. In questo paese sono piuttosto estremi: un giorno è tutto aperto, il giorno dopo si chiude tutto di nuovo. L'hanno chiamata la politica dello yo-yo. Un’istituzione molto grande come la DNO ha scoperto di essere più flessibile di quanto noi tutti pensassimo, anche se è stata una sfida al nostro sistema nervoso. Credo che questa esperienza non debba andare dispersa. È necessario trovare un modo per mantenere questa flessibilità anche in futuro. Non è facile perché nessuno, in genere, ama i cambiamenti. Abbiamo anche cominciato a lavorare a una programmazione “a due velocità”: da un lato continuiamo a lavorare su grandi progetti con tre, quattro fino a cinque anni di anticipo, ma allo stesso tempo lasciamo spazio nella programmazione per lavori che dialogano con l’attualità, che mettono il dito su questioni sociali pressanti».
Vuole fare un esempio?
«Durante la pandemia, improvvisamente ho scoperto di avere più tempo per riflettere su questioni chiave per la nostra società. Movimenti come il #MeToo o il #BlackLivesMatter o la lotta per le pari opportunità hanno acquistato un tale peso soprattutto in Olanda che è necessario incorporarli nel modo in cui si fa l’opera. Non è più possibile ignorare quelle grandi questioni sociali. Anche su questo piano abbiamo sperimentato un diverso approccio per costruire una stagione e lavorare su progetti specifici. Lo abbiamo fatto seguendo il consiglio di esperti, che ci hanno guidato in questi temi estremamente sensibili».
Durante la pandemia c’è stata una vera alluvione di spettacoli in streaming e anche la DNO ha contribuito. Continuerete su quella strada o tornerete al “business as usual”?
«Lo streaming ha avuto un grande impatto soprattutto all’inizio della pandemia. Proprio il giorno in cui è stato imposto il primo lockdown nei Paesi Bassi era prevista l’apertura dell'Opera Forward Festival con tre nuove produzioni pronte a debuttare, fra cui la prima mondiale di Ritratto del compositore olandese Willem Jeths. Sarebbe stato un peccato sprecare il grande lavoro per arrivare al debutto con dei fantastici giovani cantanti dall'Opera Studio. Decisi di chiamare il dipartimento audiovisivo e per registrare la prova generale, prima della chiusura. Sarebbe stata forse la prima e l’ultima occasione di assistere a quel lavoro, come poi è successo. Abbiamo messo online il video poco dopo ed è stato visto da moltissimi spettatori. Per avere lo stesso successo con lo streaming, credo, c’è bisogno di costruire un racconto con un impatto emotivo per trasformarlo in evento. Credo che ormai il pubblico si sia stancato di questa modalità di fruizione di uno spettacolo lirico, anche se riconosco che resta uno strumento eccellente per raggiungere un pubblico più vasto e internazionale magari in collaborazione con media partner importanti per aumentarne la diffusione. Da questo punto di vista continueremo a farlo anche in futuro per qualche nostra produzione, anche se, come molti altri colleghi, condivido l’opinione che lo streaming non sostituirà mai l'esperienza dello spettacolo dal vivo e la magia dell'interazione fra artisti e pubblico».
Willem Jeths, Ritratto, Dutch National Opera
Ha notato un cambiamento nel pubblico?
«È ancora presto per parlarne. La mia impressione è che il pubblico stia diventando più giovane, ma non abbiamo dei dati solidi al momento. Alcuni progetti o eventi vendono immediatamente tutti i biglietti disponibili, mentre per altri ci vuole più tempo rispetto a prima della pandemia. Forse il pubblico è più prudente su come trascorrere il tempo libero o come spendere i soldi. Abbiamo però bisogno di più tempo per analizzare i possibili cambiamenti nel comportamento del pubblico. Incidentalmente, "Reclaiming audiences" (Recuperare il pubblico) sarà il grande tema di discussione della prossima conferenza di Opera Europa, in programma a giugno a Praga. Promette di essere una discussione molto interessante».
Lei è arrivata alla direzione della DNO dopo 30 anni in quell’incarico di Pierre Audi. Quanto è stato difficile per lei assumere quell’incarico con una eredità così importante?
«Quando ho accettato l'incarico alla DNO ero cosciente della portata della sfida. Dico spesso che la tradizione della DNO, la base del mio lavoro, è quella di Pierre Audi, il suo lavoro negli ultimi trent’anni. Qualche volta i giornalisti olandesi mi rimproverano dicendo che c’era una vita operistica anche prima di Pierre Audi. Ho frequentato molto Amsterdam anche prima di assumere il mio attuale incarico ed ho sempre ammirato moltissimo il lavoro che Pierre è riuscito a realizzare in questo teatro. Per questo lui resta il mio riferimento diretto, così come lo è per il pubblico».
Prima accennava a una transizione durata due stagioni con Pierre Audi. Come è stata la collaborazione con lui in quel periodo?
«Già negoziando il mio incarico con il Consiglio di indirizzo della DNO, sono sempre stata molto chiara che avrei accettato solo se avessi trovato un “modus operandi” con Pierre. Nei due anni di lavoro insieme abbiamo avuto modo di sviluppare un lavoro comune e sono molto contenta di come sono andate le cose con lui. Per questo, la transizione dopo la sua lunga direzione è stata davvero esemplare. Io mi sono occupata delle produzioni che lui aveva deciso, impegnandomi per ottenere il massimo, al massimo livello. E questo sempre con un ottimo livello di accordo fra di noi».
Quali elementi ha mantenuto di quella esperienza?
«La DNO ha un suo DNA e non intendo cambiarlo: è e resterà un teatro orientato alle creazioni, alle opere nuove. E continueremo su questa strada, magari coinvolgendo artisti o compositori diversi. Presentare le opere come un "Gesamtkunstwek" è una delle caratteristiche del teatro e siamo costantemente alla ricerca di team creativi che sappiano lavorare con il genere opera per creare forme d’arte integrali, “Gesamtkunstwerk” appunto. È anche un teatro che ha sempre preso dei rischi e continuerà a farlo, probabilmente anche per il carattere degli olandesi. Tutte le maestranze del teatro amano le sfide. Il coro, per esempio, ama essere coinvolto in progetti folli, ma anche i tecnici dei nostri laboratori, fra i migliori al mondo. I team creativi che lavorano con noi per la prima volta rimangono sempre sbalorditi dall’attenzione che ricevono e quando si possono spingere in avanti per rendere i loro sogni reali sul palcoscenico».
C’è qualcosa di quella eredità che intende cambiare?
«Non intendo cambiare nulla. Comunque, ma non solo ad Amsterdam, dovremmo tutti cercare di aprire di più le nostre istituzioni. Vogliamo esserci per tutti e questo impone azioni e iniziative concrete. È necessario arrivare a un pubblico più vasto e più giovane: anche questo richiede azioni molto concrete. Ma occorre aprire le varie forme artistiche, un tema sul quale mi sono molto concentrata, aprendosi a collaborazioni fra diverse discipline artistiche. Personalmente amo molto collaborare con il balletto, come ho già fatto a Zurigo nel mio incarico precedente. Ad Amsterdam la collaborazione con il Dutch National Ballet è qualcosa di nuovo, almeno non in maniera sistematica con una o due produzioni a stagione. È un modo per lanciarci sfide ma anche ispirarci reciprocamente. In questa stagione abbiamo collaborato per la Missa in tempore belli di Haydn e nella prossima stagione lo faremo con la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, in una produzione dell’Opernhaus di Zurigo».
Giuseppe Verdi, Messa da Requiem, Opernhaus Zurich
Parliamo della prossima stagione della DNO: perché scegliere come motto “liberté”?
«“La liberté?” con un punto di domanda. Fra i vari progetti della prossima stagione la prima mondiale di Animal Farm di Alexander Raskatov dal romando di Orwell con la regia di Damiano Michieletto aprirà il festival Opera Forward, un soggetto che affronta il tema della libertà. Poi si è aggiunta Perle Noir. Meditations for Joséphine Baker con la musica di Tyshawn Sorey e la regia di Peter Sellars, uno dei tipici progetti che non programmiamo con largo anticipo, con Julia Bullock, un’artista per noi molto importante. E infine Ändere die Welt in collaborazione con dei giovani artisti olandesi, molto promettenti, che affronteranno la questione della rivoluzione. Con il capo drammaturgo ci siamo chiesti se volevamo andare piuttosto in direzione della rivoluzione o della libertà. La scelta è caduta su quest’ultimo tema, che ci è sembrato più stimolante e con connessioni con tutti i titoli che programmeremo nella prossima stagione. È anche un tema molto vicino all’esperienza della pandemia che ha toccato tutti noi: ci siamo tutti dovuti confrontare con la limitazione delle nostre libertà, di movimento, di poter andare a lavorare, di viaggiare».
Libertà a parte, quali sono i momenti forti della nuova stagione?
«Dopo due titoli maggiori del grande repertorio – Carmen e Turandot – cercheremo di realizzare concretamente quello che intendevo dire poco fa con aprire le forme artistiche trattando un tema molto attuale con Blue di Jeanine Tesori, premiata come migliore opera nuova dai critici nordamericani. È un è progetto nato non molto tempo fa. L'allestimento è lo stesso di Glimmerglass dove l’opera è stata presentata nel 2019. Al centro c'è una famiglia afroamericana che si deve confrontare con il razzismo. Il padre è un “uomo in blu”, un ufficiale di polizia. Il figlio invece è un attivista. Credo che quest’opera abbia tutti i numeri per trattare un tema che ci tocca tutti e soprattutto le generazioni più giovani nei Paesi Bassi. La violenza della polizia e contro la polizia è un tema enorme. La mancanza di pari opportunità è anche un tema importante, nonostante quello che pensano in molti. Trattando questi temi attuali, Blue ci permette anche di aprire un dialogo con comunità specifiche. Immagino e spero che entreremo in contatto con persone che non hanno nemmeno mai messo piede in un teatro lirico».
Jeanine Tesori, Blue, Glimmerglass Opera
Nel programma della prossima stagione c’è anche molto spazio per i progetti destinati al pubblico più giovane. Ne vuole parlare?
«Cominceremo con Operetta Land, una celebrazione dell’operetta perché ci piace e piace anche a Lorenzo Viotti, il direttore principale della DNO, che dirigerà l’Orchestra giovanile dei Paesi Bassi. L’ho voluto per far lavorare i giovani musicisti con Lorenzo, che è molto felice di questa opportunità, e per posizionarci nell’ambito dello sviluppo di nuovi talenti. Avremo anche la prima mondiale di un nuovo lavoro di Vasco Mendonça, The Girl, the Hunter and the Wolf. È sorprendente che Vasco, dopo aver debuttato con un’opera al Festival di Aix-en-Provence, The House Taken Over, abbia deciso di comporre un'opera da camera destinata ai ragazzi. Personalmente, credo fermamente che dobbiamo lavorare per assicurare progetti destinati a qualsiasi fascia di pubblico, a tutte le classi di età, e a un pubblico nuovo con un background culturale diverso».
Lei ha dichiarato che il suo punto di partenza per sviluppare un programma è sempre l’artista. Lei può contare su un giovane direttore come Lorenzo Viotti: come funziona la vostra collaborazione e in che direzione ha diretto la sua idea di programma?
«Professionalmente vengo dalla scuola di Renée Auphan, direttrice generale del Grand Théâtre di Ginevra, di cui sono stata assistente personale. Ho cominciato a lavorare nel mondo dell'opera a 18 anni con lei. Renée ha sempre concesso lo spazio maggiore del suo lavoro agli artisti. Dopo Ginevra, ho lavorato come manager di artisti, concentrandomi su giovani talenti per aiutarli a sviluppare una propria carriera. Sono abituata e amo molto stabilire un dialogo con gli artisti e capire cosa vogliono raggiungere attraverso la loro espressione artistica per scegliere i progetti più adatti».
«… amo molto stabilire un dialogo con gli artisti e capire cosa vogliono raggiungere attraverso la loro espressione artistica per scegliere i progetti più adatti».
«Anche con Lorenzo Viotti lavoro così. Lorenzo ha un’autentica passione per l'opera e per quello che l'opera può dare. Ha anche una passione per la danza e il balletto e per altri generi musicali come il rap, la musica elettronica e per l'intero spettro di ciò che la musica e il teatro musicale hanno da offrire, anche incorporando la danza. Quando discutiamo di progetti futuri cerco davvero di capire per quale progetto batte il suo cuore. D’altra parte qui ad Amsterdam lui sa che può impegnarsi in progetti che altrove sarebbero impossibili. Mi metto in ascolto e torno da lui con delle proposte concrete che discutiamo insieme. Così sono nati i progetti di Missa in tempore belli o di Der Zwerg di Zemlinsky durante la pandemia. Quei progetti sono anche la dimostrazione che con lui è possibile andare molto lontano anche in presenza di forti restrizioni come quelle imposte dalla pandemia».
Josef Haydn, Missa in tempore belli, Dutch National Opera
Lei ha anche detto che uno degli aspetti più appassionanti del suo lavoro è mettere insieme team artistici. Ne può citare qualcuno?
«In questi giorni stiamo concludendo le prove di Tosca con Lorenzo Viotti e il regista Barrie Kosky: ecco un vero “dream team”! Bisogna vederli come lavorano insieme. Lorenzo partecipa a tutte le prove e discute di tutto. Come con Lorenzo, anche con Barrie Kosky ho passato molto tempo per cercare di capire esattamente quale progetto poteva essere interessante per lui fare a Amsterdam che non poteva fare altrove. Come anche Lorenzo, a Barrie fanno ponti d'oro ovunque e hanno entrambi il privilegio di poter scegliere su quali progetti lavorare. È quindi importante fare in modo che le proposte per Amsterdam abbiano un valore aggiunto per loro che non possono avere altrove. Avevo già fatto La fanciulla del West a Zurigo con Barrie Kosky una produzione così riuscita che non mi sono fatta sfuggire l'opportunità di sviluppare un ciclo di tre opere di Puccini per Amsterdam, un’idea nata nell'estate del 2017. Dopo Tosca, nella prossima stagione lavoreranno su Turandot e in quella successiva sul Trittico in concomitanza con l’anno pucciniano. Come sovraintendente, riuscire a presentare nuovi allestimenti di opere di Puccini con questo “dream team” è esattamente quello che voglio per il nostro pubblico».
Giacomo Puccini, La fanciulla del West, Opernhaus Zurich
«Un altro progetto che descrive bene il mio modo di lavorare è Die ersten Menschen di Rudi Stephan, che abbiamo realizzato nella scorsa stagione con l'Orchestra del Concergebouw nell'ambito dell'Holland Festival. A causa delle restrizioni per la pandemia, abbiamo dovuto cambiare il progetto inizialmente previsto, cioè La damnation de Faust di Berlioz, impossibile da realizzare per le dimensioni di orchestra e coro. Ci tenevo a far debuttare ad Amsterdam Calixto Bieito, con il quale ho una relazione artistica molto stretta e proficua da anni. Mi serviva un direttore d'orchestra che potesse lavorare con lui e ho pensato a François-Xavier Roth, con il quale il rapporto è stato molto fertile. E poi servivano quattro interpreti con i quali Calixto potesse davvero lavorare. Una volta composto il mosaico, il progetto è cresciuto da solo. Quando si riesce a mettere insieme il team giusto, quando scatta la chimica fra regista e cantanti, è incredibile quanti risultati si possano ottenere anche dopo una sola prova. È quello che è successo con Die ersten Menschen fra Roth, Bieito e i quattro interpreti Annette Dasch, Leigh Melrose, Kyle Ketelsen e John Osborn».
Rudi Stephan, Die ersten Menschen, Dutch National Opera
Lei è una delle poche donne in Europa a capo di un teatro lirico, un mondo nel quale il cosiddetto “soffitto di cristallo” sembra essere particolarmente spesso. Cosa si può fare per cambiare questa situazione?
«È certamente un peccato che ci siano così poche donne manager nel mondo dell’opera. Ma non credo si tratti del “soffitto di cristallo”, per lo meno non nei Paesi Bassi. Penso piuttosto che ci sia bisogno di molte più donne interessate a questo tipo di lavoro. È un lavoro bellissimo ma complesso e che assorbe moltissimo tempo. Personalmente considero anche parte del mio lavoro incoraggiare e motivare altre donne ad intraprendere questa carriera e accettare le grandi sfide che comporta».
Lei fa parte del Consiglio di amministrazione di Opera Europa. Come vede la situazione dell’opera in Italia e in Europa da quel particolare osservatorio?
«Non conosco come si fa l’opera in ogni singola realtà in Italia, ma ovviamente l’Italia faceva parte delle mie destinazioni quando viaggiavo molto prima della pandemia. Credo che i teatri lirici in Europa siano molto connessi fra loro e certamente l’Italia non è isolata. Per farle due esempi molto concreti, già in questa stagione abbiamo una collaborazione con il Teatro di San Carlo di Napoli per la trilogia Tudor di Donizetti allestita della regista Jetske Mijnssen, mentre nella prossima stagione Animal Farm sarà coprodotto con il Teatro Massimo di Palermo. Per me l'Italia rimane il paese dell’opera e mi piace pensarla così. Ho l'impressione che le cose stiano evolvendo in una direzione molto positiva nel paese. Qualche settimana fa sono stata al Teatro alla Scala per visitare Dominique Meyer e Lorenzo Viotti, che vi dirigeva Thaïs, e ho notato un pubblico più giovane anche in quel teatro».
E in Europa? Cosa si potrebbe fare di più?
«Non mi metto certo a dare consigli ai miei colleghi su cosa dovrebbero fare. Credo che in Europa esista una bellissima comunità di teatri lirici. Basta vedere il loro numero elevatissimo: l'opera esiste! In Opera Europa abbiamo scambi di vedute molto proficui con i colleghi e aperti e ci supportiamo reciprocamente. Dovremmo fare ancora più scambi? Forse sì, soprattutto su progetti concreti, nonostante le difficoltà e l'investimento di tempo necessario. In generale, credo sia positivo che i diversi paesi europei preservino identità diverse e che questo si rifletta nel modo in cui l'opera viene presentata. Sarebbe orribile se tutti i teatri si mettessero a fare le stesse cose allo stesso modo! Ognuno di noi deve mantenere la propria identità di paese e come lavoriamo su questa magica forma d’arte. È bellissimo viaggiare in Europa non soltanto per assistere a rappresentazioni d'opera ma anche per sedersi nei teatri e apprezzare le differenze nel pubblico, come le persone parlano dello spettacolo dopo. Fa tutto parte di questa esperienza fantastica».
È necessaria l’opera?
«Quando andai per la prima volta all'opera avevo otto o nove anni. Ero a Ginevra e si dava Un ballo in maschera con Luciano Pavarotti. Ci andai perché c’era un biglietto in più e mia madre decise di portarmi con sé. Me la ricordo ancora come una delle più belle serate della mia vita. Sperimentai qualcosa che era molto più grande di me e di quanto avessi provato fino a quel momento. Credo che l'opera sia soprattutto questo: la forma d'arte più completa con una magia che stimola emozioni, sensi e intelletto. Quando tutto questo accade, si ha qualcosa che è molto più grande della somma delle parti che la compongono. Può essere un arricchimento incredibile per un essere umano. Se tutti approfittassimo di quell'arricchimento, anche le nostre società sarebbero più forti».