L’accostamento di alcuni volumi pubblicati più o meno di recente ci offre l’opportunità di confrontare visioni e prospettive differenti, in una sorta di intreccio di rimandi incrociati che possono evidenziare quanto densa e interconnessa sia la materia di cui è fatto il mondo musicale che ha abitato il “secolo breve”. Scelto qui come pretesto per un percorso nel Novecento in musica, nel suo celebre saggio apparso nel 1994 e titolato Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991 (Il secolo breve, RCS Libri 1997), Eric J. Hobsbawm delineava i confini della sua lettura del XX secolo, appunto, tra il ’14 e il ’91, evidenziando inoltre, alla fine del testo che introduce il volume, come «il vecchio secolo non è finito bene».
Oggi, a distanza di ventotto anni, da un lato possiamo annotare che, dal punto di vista storico-politico, il nuovo secolo non pare proprio essere iniziato meglio, mentre dall’altro lato possiamo rilevare come, nel Novecento, il perimetro nel quale si è sviluppata la cultura musicale – in questo caso in particolare italiana, ma non solo – si sia diversamente esteso al di là di questi confini, occupando l’intero arco cronologico del secolo scorso e in alcuni casi anche sconfinando: sappiamo bene, in effetti, come soprattutto in campo culturale e artistico i confini cronologici siano fatalmente labili.
Un percorso – quello rappresentato dallo sviluppo della musica e della cultura musicale nel Novecento, riletto attraverso i testi qui presi in esame – nel quale abbiamo inoltre trovato due ideali “ciceroni” nelle figure di Luciano Berio e di Pierre Boulez, due profili di compositori e intellettuali anche molto diversi tra loro, ma che abbiamo sorpreso fare capolino tra le pagine dei volumi seguenti a più riprese e in contesti affatto differenti.
Prendiamo dunque in esame i cinque volumi qui scelti, i quali possono rievocare i cerchi concentrici prodotti da un sasso lanciato nello stagno, in un percorso che, dal bordo più esterno di segno e visione più ampia e generale, ci conduce a focalizzare via via lo sguardo in dimensioni sempre più specifiche e, in quanto tali, emblematiche.
Partiamo quindi dall’osservazione di ampio raggio proposta dal volume La cultura musicale degli italiani (Guerini 2021, pp. 526, € 48,00) curato da Andrea Estero e pubblicato sotto l’egida della Società Italiana di Musicologia, nell’ambito del progetto diretto da Guido Salvetti denominato Musica nel '900 italiano.
In questa pubblicazione si intende prendere in considerazione non tanto il “sapere” musicale strettamente inteso, ma – in un’ottica culturale che vuole presentarsi più aggiornata dal punto di vista teoretico e storiografico – ogni tipo di esperienza che può configurarsi come pratica culturale. In questo quadro, tre sono le direttrici di ricerca individuate: la formazione musicale all’interno dei percorsi educativi istituzionali e i percorsi formativi non istituzionali; le pratiche musicali non professionali e partecipative (dilettantismo, associazionismo, usi sociali della musica); la fruizione collettiva e individuale di musica, con particolare accento sul ruolo svolto dai mezzi di comunicazione di massa lungo il corso del Novecento.
Un approccio di segno, diciamo così, pragmatico che, come annota lo stesso Estero nella sua Introduzione, si propone «non tanto come possibile storia della cultura attraverso la musica, ma come indagine volta alla descrizione della cultura musicale come immaginario». Così, in maniera coerente con le tre direttrici di ricerca più sopra evidenziate, il volume si articola in tre parti: “La musica nella formazione degli italiani” (contributi di Luca Aversano, Nika Tomasevic e Anna Lisa Tota–Antonietta De Feo); “Gli italiani e la pratica musicale” (contributi di Antonio Carlini, Maria Borghesi–Daniele Palma e Giuseppina Colicci); “Cultura, vita musicale e mass media”, forse la sezione più sollecitante e vivace, che propone scritti di Claudia Polo, Cesare Orselli, Federico Vizzaccaro, Anna Scalfaro, Marcello Piras, Jacopo Tomatis, Benedetta Zucconi, Marco Capra e Maria Grazia Sità.
Nel percorso proposto da questo volume, se Antonio Carlini nel suo saggio riprende proprio la definizione di “secolo breve” di Hobsbawm evidenziando come «nel caso delle nostre considerazioni attorno alle dinamiche dell’associazionismo, le valutazioni temporali, in realtà, si allungano notevolmente […]», è Maria Grazia Sità, trattando dell’editoria italiana in rapporto alla cultura musicale, a segnalare la «traduzione del libro di Eric John Hobsbawm, Storia sociale del Jazz, Editori Riuniti, Roma 1982 (ed. orig. 1961) per il suo particolare status di libro scritto da un importante storico “tout court” che momentaneamente dedica la sua attenzione alla musica […]».
Abbandonando le suggestioni di Hobsbawm, tra i tanti spunti offerti da questo libro troviamo un altro snodo di particolare interesse nella figura di Luciano Berio, compositore e intellettuale tra i più rilevanti del secolo scorso, attivo anche nell’ambito della divulgazione musicale, come ben ricorda Benedetta Zucconi: «Il 1972 è l’anno di uno dei più importanti, originali e irripetibili programmi di divulgazione musicale che siano mai stati concepiti e realizzati in RAI: C’è musica & musica di Luciano Berio, per la regia di Gianfranco Mingozzi. In dodici puntate esso affronta varie problematiche sul fare, pensare e scrivere musica, con esempi da Monteverdi a Beethoven ai Beatles […]».
Luciano Berio come illuminato – e isolato – divulgatore, quindi, ma anche come figura non certo accomodante nel panorama suo contemporaneo. Infatti, se indaghiamo tra le pagine del volume Italia/Francia. Musica e cultura nella seconda metà del XX secolo (Neoclassica 2020, pp. 322, € 35,00), possiamo rilevare i diversi e interessanti caratteri che connotano la cultura musicale italiana e francese nel secolo scorso. Tra questi, scorrendo tra le righe dell’Introduzione di Amalia Collisani – curatrice della raccolta di saggi assieme a Gabriele Garilli e Gaetano Mercadante – scopriamo alcuni apprezzamenti di segno contradditorio tra Pierre Boulez e lo stesso Luciano Berio: «Jean-Jacques Nattiez può ipotizzare che sul progressivo crescente interesse del compositore [Boulez, n.d.r.] nei confronti delle qualità linguistiche della musica una qualche influenza venga dagli italiani e in particolare da Luciano Berio; forse si può leggere anche in questa chiave il significativo testo di omaggio che Boulez gli ha dedicato nel 2003, ma potrebbe dirci qualcosa in direzione opposta il fatto che di Berio egli abbia voluto mettere in luce “l’indomabile esperienza di spirito”».
Collisani si riferisce all’interessante saggio di Nattiez ospitato in questo volume e titolato “Pierre Boulez e le musiche del XX secolo”, significativo contributo a una silloge che propone un’indagine su alcune reciproche influenze tra la cultura musicale di Italia e di Francia nel Novecento. Una raccolta di saggi scaturiti da un convegno tenuto a Palermo nel 2008, in ideale prosecuzione con due precedenti incontri di studio a Strasburgo e a Cremona. Il libro riunisce scritti di autori quali, oltre allo stesso Nattiez, Carlo Serra, Gianfranco Vinay, Raffaele Pozzi, Angelo Orcalli, Luigi Manfrin, Gaetano Mercadante, Pietro Misuraca, Gabriele Garilli, Amalia Collisani, Pierre Michel, Alessandro Arbo, Ingrid Pustijanac, Giovanni Damiani. Un insieme di punti vista uniti dall’intento di restituire la complessità delle definizioni di identità e di tradizione da una parte, e di globalizzazione dall’altra. Così divengono centrali, appunto, le convergenze tra Boulez e Berio, le relazioni intellettuali di Rognoni, i rapporti tra Salvatore Sciarrino e Gérard Grisey, l’itinerario di Fedele, le poetiche di Scelsi o Romitelli, le scelte compositive di Verrando, Manca e Damiani.
Se, nel suo contributo al volume Italia/Francia, Angelo Orcalli annota come «si avanza, da parte dello spettralismo, l’idea di una sintesi di rappresentazione ed espressione del suono che lasciava scorgere, dopo la cesura elettronica, una continuità con la tradizione orchestrale europea e segnatamente francese», nella sua Prefazione – scritta a quattro mani con l’altro curatore Nicola Buso – al volume La musica nella gabbia della modernità (LIM 2020, pp. VIII+240, € 32,00) lo stesso autore evidenzia come «l’attenzione di questo volume per il pensiero musicale di autori che nell’arco di un secolo non hanno smesso di misurarsi con la complessità del comporre, assume il significato di un invito alla riflessione sull’azione spregiudicata della modernità nel terzo millennio». Grazie a contributi di studiosi come, oltre agli stessi Buso e Orcalli, Charlotte Ginot-Slacik, Laurent Feneyrou e Luca Cossettini, questo libro parla di uomini e compositori italiani che hanno dato voce alla crisi della modernità nel Novecento: Luciano Berio, Ferruccio Busoni, Niccolò Castiglioni, Luigi Dallapiccola, Adriano Guarnieri, Bruno Maderna, Giacomo Manzoni, Luigi Nono sono i protagonisti in questo volume dal titolo evocante la celebre metafora della gabbia di durissimo acciaio, coniata da Max Weber per definire la condizione dell’uomo moderno. Nel corso del Novecento le voci più vive hanno saputo trarre dall’azione tecnico-scientifica prodotta dalla modernità le innovazioni concettuali e materiali necessarie allo sviluppo del pensiero musicale, rifiutando che questo implicasse la fine del futuro, la perdita di senso e l’insignificanza del loro ricercare.
Luca Cossettini scrive nel suo contributo a questo volume che «seguire la parabola strutturalista e le complicazioni che essa ha portato nella produzione (e interpretazione) della musica elettronica in diversi compositori ci fa intravedere forse alcune ragioni profonde che hanno portato Berio a fondare nel 1987 il Centro Tempo Reale a Firenze. […] L’interazione con i sistemi digitali programmati diviene un’estensione dell’atto esecutivo, non per “inventare suoni e situazioni sonore inedite quanto, piuttosto, [per] definire e sviluppare organismi concettuali capaci di generare processi musicali nuovi eventualmente segnalati, appunto, da suoni nuovi”».
Le parole di Berio ricordate da Cossettini possono rimandare idealmente alle considerazioni raccolte da Giacomo Fronzi nel suo volume Percorsi musicali del Novecento (Carocci 2021, pp. 268, € 19,00). L’autore, subito dopo aver citato lo stesso centro di ricerca e produzione fiorentino Tempo Reale, evidenzia come «lo spazio che Berio occupa nel panorama musicale contemporaneo, infatti, non è semplicemente il frutto di una produzione di prim’ordine, ma è il giusto tributo a una posizione intellettuale rivendicata fino all’ultimo. […] Ciò che ha caratterizzato l’esperienza di Berio è l’aver negato l’idea di musica come territorio circoscritto, come riserva, come luogo “sacro”, letteralmente separato dalla vita del mondo».
Questo stralcio esemplifica bene l’approccio adottato da Fronzi nella compilazione di questa raccolta di “storie, personaggi, poetiche da Schönberg a Sciarrino”, giusto per riprendere il sottotitolo di un libro che fonde l’esperienza e le scelte personali dell’autore – «in fin dei conti e come quasi sempre accade, si parla di ciò che più si ama[…]» annota lo stesso Fronzi nella sua Introduzione – a un impianto divulgativo piuttosto essenziale (vedi la “Breve premessa storico-musicale”). Un volume, quindi, che intende esplicitamente avvicinare la musica contemporanea ai suoi potenziali ascoltatori attraverso le storie di personaggi come Stockhausen, Pärt, Nono, Xenakis, Takemitsu, Piazzolla, Gubajdulina, Reich e tanti altri i quali, nella loro varietà, danno un’idea dell’eccezionale ricchezza dei linguaggi musicali del XX e del XXI secolo e della loro vicinanza alla condizione umana del nostro tempo.
Un percorso di lettura che miscela quindi, negli otto capitoli tematici che contestualizzano di volta in volta la trattazione, personalità tra loro molto diverse, sia per scenario culturale di riferimento sia per impianto linguistico-musicale, affiancando per esempio autori come George Gershwin, Kurt Weill e Hans Werner Henze nel quadro del teatro musicale tra due mondi, o ancora, nel successivo capitolo titolato “Stravaganze” a stelle e strisce, personalità come quelle di Charles Ives, John Cage e Frank Zappa. Un personaggio, quest’ultimo, che ci permette di lambire quello scenario popular così rilevante nello sviluppo della cultura musicale del XX secolo e che fino a questo momento non abbiamo incontrato, così come abbiamo solo sfiorato un altro fondamentale panorama che si è delineato e sviluppato proprio nel Novecento come quello rappresentato dal jazz.
Ma i confini tra i generi e gli stili – così come quelli cronologici – si rivelano essi stessi sovente molto labili. Così se, come rammenta lo stesso Fronzi, Zappa viene ricordato anche per la sua collaborazione con Pierre Boulez – suggellata dal celeberrimo lavoro discografico Boulez Conducts Zappa: The Perfect Stranger pubblicato nel 1984 –, il testo di Geoff Wills Frank Zappa e la musica jazz (Auditorium 2021, pp. 174, € 15,00) esamina in dettaglio i rapporti tra Zappa e il mondo del jazz, offrendoci uno sguardo trasversale sulla figura di un musicista tra i più prolifici ed eclettici del secolo scorso.
Pubblicato originariamente nel 2015 e proposto sul mercato italiano nella traduzione di Claudio Chianura, il volume passa in rassegna cronologicamente tutta la vita e l’opera di Zappa, evidenziando per ciascun periodo – a cominciare dagli anni di formazione – le varie connessioni esistenti tra Zappa e il jazz. Un tracciato disegnato analizzando gli elementi jazzistici nella sua musica, i numerosi musicisti jazz da lui impiegati nelle varie band dedite a eseguire le sue composizioni, le dichiarazioni anche problematiche o contradditorie rilasciate sulla musica di origine afroamericana dallo stesso musicista in varie interviste.
Quello che Geoff Wills pare voler mettere in evidenza è il fatto che Frank Zappa conosceva e apprezzava il jazz come linguaggio, criticandone comunque gli aspetti più legati all’establishment, con un approccio se vogliamo del tutto simile a quello tenuto nei confronti del mondo del rock. Un punto di vista singolare sul profilo di un artista estremamente attento alle diverse declinazioni dei linguaggi musicali che incontrava sulla sua strada, in maniera diretta o indiretta: «È interessante soffermarsi su altri viaggi esplorativi che Zappa potrebbe aver compiuto. Come Vladimir Simosko afferma nella sua biografia di Eric Dolphy del 1974, il californiano Ojai Festival nel 1962 vide Dolphy suonare “Density 21.5” di Varèse, e altri performer tra i quali Cathy Berberian e Luciano Berio. Furono eseguite composizioni di John Cage e di Thelonious Monk. Questo è il genere di evento al quale Zappa avrebbe potuto assistere senza averne parlato. Certamente, collaboratori di Zappa come il trombettista Malcolm McNab furono coinvolti nell’Ojai Festival durante i primi anni ’60. […] Zappa aveva in mente Cathy Berberian come cantante quando nel 1968 scrisse un brano musicale intitolato “Music for the Queen’s Circus” che divenne più tardi 200 Motels. La vedova di Zappa, Gail, ne ha parlato durante un discorso tenuto prima dell’esecuzione londinese di 200 Motels nel 2013».