Araputo Zen, lo spirito del prog-folk
Majacosajusta è il bel secondo album del gruppo napoletano Araputo Zen
Quando un disco attizza faville di memoria, e di lì riprende vigore qualche vivificante fiammella di ricordo, anche se il calore sprigionato è tutto contemporaneità, è sempre una bella notizia. Una scia smagliante di faville le attizzano i napoletani Araputo Zen, che già s’erano fatti notare diversi anni fa con Hydrontum, nel 2016.
Ora arriva questo notevole Majacosajusta, da loro stessi definito «il riassunto di tutto quello che ci sconsigliano di fare. Frutto di anni di lavoro e di sacrifici, di piccole conquiste e di tanto sudore e sofferenza, ma non solo questo; è frutto di una ricerca spassionata volta verso la bellezza». Aggiungendoci, anche, la gioiosa fatica del crowdfunding. Quindi, tutto vero, perché di rado si coglie tanta assertiva consapevolezza di essere arrivati al passo giusto, quello che fa andare lontani.
Araputo Zen è un gruppo tutto corde e batteria, percussioni, vibrafono. Ci sono chitarre acustiche e elettriche, violino e mandolino. I riferimenti per questo ensemble partenopeo sono molteplici, tante sfaccettature sonore di percorsi ben meditati e ben assortiti. In ordine sparso: certo raffinato e malinconico progressive rock d'antan inglese e italiano, ad esempio i primi Genesis, la prima PFM, e certo folk rock d’Albione, con qualche velato accenno a Curved Air e Gentle Giant, perfino rarefazioni folk psichedeliche, come nella splendida e conclusiva brano che intitola e chiude il tutto.
Molti passaggi, poi, che denotano ascolti attenti di quella prodigiosa scaturigine di novità nel mondo della popular music che furono i dischi di Carnascialia, del Canzoniere del Lazio, di Mauro Pagani, di Alia Musica.
Detto in una sola formula: il composito mazzo di note che tutto assieme fece parlare (e probabilmente a ragione) di etno rock e neo folk “mediterraneo”, intendendo con l'aggettivo non tanto un blocco estetico monolitico, ma una libera oscillazione tra le sponde. Tant’è che qui coglierete anche qualche eco di Avarta, il grande e sfortunato gruppo ligure che del ponte “mediterraneo” fu paladino, e la cui lezione arriva oggi, per via di tante mediazioni, ai Motus Laevus di Edmondo Romano.
A volte l’orizzonte va su una linea ancor più lontana: quella di Zorn quando ripensa alle musiche dal mondo confluite nelle pulsazioni della musica ebraica, la milonga, la new acoustic music che fu. Gran lavoro. Da gustare dal vivo, speriamo.