Pompeii: l’eruzione di Cate Le Bon
L’artista gallese Cate Le Bon perfeziona nel disco nuovo la sua visione “avant pop”
Piaccia o no, l’espressione “disco concepito durante la pandemia” si è tramutata in canone: l’esperienza di un “vuoto ininterrotto”, secondo Cate Timothy (lo pseudonimo Cate Le Bon deriva proprio dal “duraniano” Simon), trentottenne originaria del Galles ma cittadina del mondo, essendo abituata a girarlo per lavoro e avendo preso dimora oltreoceano nell’area di Joshua Tree, in prossimità del deserto del Mojave.
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Il piano era di registrare il nuovo album, successivo a Reward (2019), finora apice del suo curriculum professionale, «in un posto qualsiasi dove potessimo essere completamente staccati da sicurezze e comodità», ha raccontato a “The Guardian”, indicando fra le possibilità Cile e Norvegia. Si sa però com’è andata e allora eccola confinata in un appartamento a Cardiff insieme al produttore di fiducia Samur Khouja e al compagno Tim Presley (musicista anch’egli e altresì pittore, qui autore del ritratto effigiato in copertina).
E tuttavia, ha confidato Cate Le Bon nell’intervista citata: «È stata la volta in cui mi sono sentita più libera». Sarà perché ha fatto quasi tutto da sé, componendo le canzoni al basso e sviluppandole poi con gli strumenti restanti, in particolare un sintetizzatore Yamaha DX7 (principale responsabile delle sonorità vagamente anni Ottanta che pervadono l’opera), eccezion fatta per batteria, affidata in remoto all’australiana Stella Mozgawa, e sassofoni, imbracciati dai connazionali Stephen Black ed Euan Hinshelwood.
E veniamo al titolo, metafora di catastrofe incombente: “Spedisco tutte le mie paure a Pompei”, canta nell’episodio omonimo, precisando in seguito che “tutto il mio linguaggio è autentico e volgare”. Aggiungeremmo: sibillino. E pertanto affascinante. Tipo: “Nel rifacimento della mia vita mi muovevo in linee rette, avevo bei capelli e occhi intorpiditi, il cuore come un tuono”, recitano i versi di “Remembering Me” in un habitat sonoro sospeso fra prog e post punk, genere Bowie ai tempi di Scary Monsters….
Ha spiegato: «Spesso, scrivendo cose simili, mi rendo conto di non comprenderle interamente, eppure suonano bene». Già… “Il suono non se ne va nell’abituale silenzio, reinventa la superficie di tutto quello che tocca”, dice l’iniziale “Dirt on the Bed” su ritmo metronomico, tra fiati sbilenchi e chitarre indolenti. In scia arriva quindi “Moderation”, negando ciò che invoca: “Moderazione, non posso averla, non la voglio”, dichiara la protagonista con voce diafana, prima di porgere un ritornello dalla grazia aliena.
Siamo dunque in zona “avant pop”, qui più aristocratico rispetto al predecessore, se dobbiamo segnalare una differenza: alla maniera dell’Ur-gallese John Cale o di certe invenzioni di St. Vincent, con ambedue i quali la nostra Cate si è trovata a collaborare, mentre nella svagatezza sofisticata di “French Boys” sembra di riascoltare gli Stereolab e nella decadenza barocca di “French Boys” si scorge in controluce il profilo di Laurie Anderson (epoca Big Science). Chi volesse gustare viceversa “la cosa più dolce che non hai mai avuto” si rivolga infine a “Running Away”.
Deliziosamente anacronistico e venato da una strana sorta di surrealismo esoterico, Pompeii sarebbe un sottofondo ideale al Korova Milk Bar: avvisate Alex e i suoi Drughi…