L’Orfeo: un rebus di difficile soluzione
A Ravenna una nuova produzione del capolavoro di Monteverdi con la regia di Pizzi e la direzione di Dantone
Pier Luigi Pizzi spiega che le radici di questo nuovo allestimento di Orfeo, di cui ha firmato regia, scene e costumi, risalgono all’inizio degli anni Ottanta, quando Luciano Berio gli chiese di mettere in scena una sua particolarissima versione della partitura, che affidava la parte strumentale ad un complesso di plettri, ad una rock band e a strumenti barocchi e faceva ricorso anche a voci registrate, sintetizzatori e musica elettronica. I cantanti avrebbero dovuto avere voci naturali e non voci liriche impostate, per recuperare la “spontaneità” (sic) della favola in musica di Monteverdi. Un progetto folle, da far venire un colpo ai fautori delle esecuzioni storicamente informate e degli strumenti originali, ma probabilmente – anzi sicuramente – geniale.
Questa versione fu rappresentata con successo in una piazza di Firenze, col pubblico che si muoveva in mezzo agli esecutori, come in una festa popolare, secondo quel che voleva Berio. Dopo quasi quarant’anni se ne è messa in cantiere una ripresa al festival di Spoleto del 2020, ma poi le norme anti-Covid hanno imposto di tornare alla versione originale di Monteverdi, mantenendo tuttavia alcune idee del progetto di Berio. Dalla piazza di Spoleto quest’allestimento è stato ora trasportato nel Teatro Alighieri di Ravenna, con le modifiche imposte dal diverso spazio. Ma qualcosa dell’ormai remota concezione di Berio è rimasto. Per esempio, come spiegano Pizzi e il direttore Ottavio Dantone, è rimasta la necessità di trovare una soluzione convincente per il finale, che – si sa – è un enigma musicologico. Infatti il finale che si legge nel libretto è completamente diverso da quello della partitura a stampa, in cui Apollo scende dall’Olimpo per consolare suo figlio Orfeo della perdita di Euridice e lo porta con sé in cielo. Oggi può sembrare un finale incongruo con la tragicità dell’opera, ma rispondeva al gusto delle corti dell’epoca. È assolutamente opinabile tagliarlo e lasciare la favola in musica di Monteverdi senza un finale o - come dice Dantone, riciclando un termine di moda qualche anno fa - con un finale “aperto”. Ed è opinabile non per lesa filologia ma perché si perdono alcuni minuti di grande pregio musicale e soprattutto perché Monteverdi con Orfeo era alla sua prima opera ma già di teatro ne capiva più di tutti i compositori, direttori e registi dei secoli successivi.
Dell’idea di Berio resta anche qualche altro lacerto, che probabilmente funzionava all’interno della trasformazione dell’opera di Monteverdi in uno spettacolo popolare di piazza, ma non funziona più in una esecuzione fedele (più o meno) all’originale. Non funziona che la Musica, che nel prologo esalta la concezione platonica dell’arte dei suoni, si atteggi a diva della musica pop, molto somigliante a Lady Gaga. Non funziona che ninfe e pastori nell’attesa gioiosa delle nozze di Orfeo ed Euridice si mettano a ballare, i più anziani come in una balera, i più giovani come in una discoteca: oltretutto ballare non è il loro mestiere, e si vede.
Ma in fin dei conti si tratta di dettagli, perché poi per il restante novanta per cento dell’opera Pizzi realizza un magnifico spettacolo, in cui è evidente la mano di un grande maestro, che mette a frutto tutta la sua più che semisecolare esperienza, senza aver bisogno di cercare di mettersi in mostra con alcunché di originale e di strano. Al contrario, Pizzi si è ispirato alla massima semplicità, creando uno spettacolo essenziale, austero e profondamente tragico, senza neppure l’ombra di pennacchi, dorature e altri orpelli pseudobarocchi. La scena unica consiste nella facciata di un palazzo rinascimentale, dal cui portone escono i vari personaggi, come per ricordarci che L’Orfeo è nato come opera di corte ma poi è uscito dalla corte ed è diventato un capolavoro universale. Il resto del palcoscenico è vuoto, ma vi prende posto l’orchestra, cosicché resta poco spazio per solisti, coro e figuranti, che infatti agiscono soprattutto su una passerella che gira intorno alla buca dell’orchestra e offre l’impagabile vantaggio di metterli a contatto ravvicinato col pubblico. E con un’idea splendida Pizzi trasforma la buca dell’orchestra, restata vuota, nell’Ade, da cui emergono le divinità infernali, in cui scende eroicamente Orfeo per riportare tra i vivi Euridice e in cui Euridice ritorna quando Orfeo, violando il divieto divino, si volta a guardarla. Chapeau!
Una tragicità essenziale guida anche l’interpretazione di Orfeo da parte del tenore Giovanni Sala, che realizza una totale unità tra canto e parola, senza alcun manierismo vocale più o meno barocco: era questo l’ideale del “recitar cantando” che ispirava gli autori delle prime opere della storia e in particolare Monteverdi. Altrettanto essenziali e intensamente drammatici gli interventi di Daniela Pini (Proserpina), Margherita Maria Sala (Speranza), Mirco Palazzi (Caronte) e Federico Sacchi (Plutone): tutti già di per sé molto bravi e indubbiamente aiutati anche dal regista e dal direttore.
Se le interpretazioni dei personaggi divini sono splendide, alcune perplessità nascono dall’idea di affidare i personaggi femminili mortali a voci non impostate, chiare ed esili, quasi delle voci bianche. Si tratta probabilmente di un residuo della versione di Berio e in quel contesto avrebbe avuto un significato, ma la mescolanza tra le due versioni, quella originale del primo Seicento e quella del tardo Novecento, non funziona. C’è anche una contraddizione tra l’aver scritturato delle cantanti di formazione lirica per poi chiedere loro di cantare con voce naturale. Questo non pregiudica troppo un personaggio effettivamente fragile come Euridice, interpretata da Eleonora Pace. Invece lascia perplessi l’interpretazione da parte di Vittoria Magnarello della Musica, inevitabilmente influenzata dall’immagine caricaturale che ne offre la regia. Purtroppo è totalmente inadeguata la realizzazione del momento forse più alto dell’opera, il racconto della morte di Euridice da parte della Messaggera, ma non si può scaricarne la colpa su Alice Grasso, che è una cantante di musical, da cui non si può pretendere che si impadronisca in pochi giorni di un universo così lontano dal suo. Nel complesso adeguati – chi più chi meno – gli interpreti dei personaggi minori.
La concertazione di Ottavio Dantone, che dirige la sua Accademia Bizantina, è ovviamente una garanzia, al di là di occasionali problemi d’intonazione a carico soprattutto – ma non solo – degli strumenti a fiato: ma si sa che gli strumenti antichi sono molto infidi. Naturalmente si potrebbe aprire una discussione infinita sull’organico orchestrale dell’Orfeo. La partitura elenca oltre quaranta strumenti, un’enormità per l’epoca, ma soltanto in alcuni momenti specifica quali strumenti dovrebbero intervenire. Quasi mai si è sentito un’Orfeo con tutti gli strumenti elencati da Monteverdi, quindi è assolutamente accettabile che Dantone abbia ridotto l’orchestra a poco più di venti elementi, ma si sarebbe preferito che non avesse affidato il ruolo predominante agli archi, sacrificando così la varietà di colori ricercata da Monteverdi per ogni scena.
Caloroso e meritatissimo successo.
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