Lui, alla fine della nostra chiacchierata, lo definisce «il papà di tutti» e noi non possiamo non essere d’accordo. “Lui” è Enrico Dindo, violoncellista torinese figlio d’arte, solista ampiamente affermato e protagonista di una carriera che da vincitore nel 1997 del primo premio al concorso “Rostropovich” di Parigi lo ha portato a divenire, tra l’altro, accademico di Santa Cecilia dal 2013. Abbiamo intervistato Dindo in vista di un appuntamento che lo vede debuttare, il prossimo 8 novembre, nel cartellone di Ferrara Musica, nell’ambito di un focus che la manifestazione ferrarese in questa stagione 2021-2022 ha voluto dedicare proprio a questo “papà di tutti”, vale a dire a Johann Sebastian Bach.
Delle sei Suite per violoncello solo del maestro di Eisenach – composte attorno al 1720 e pubblicate dall’editore H. A. Probst di Vienna solo nel 1825, vale a dire settantacinque anni dopo la morte dell’autore – il programma proposto da Dindo comprende la Suite n. 2 in re minore per violoncello solo BWV 1008, la Suite n. 3 in do maggiore per violoncello solo BWV 1009 e la Suite n. 4 in mi bemolle maggiore per violoncello solo BWV 1010.
Tre tappe centrali di un percorso se vogliamo ormai iconico della letteratura per violoncello solo, ma che vengono riproposte da Dindo attraverso una prospettiva di lettura frutto di un percorso personale, costruito in anni di confronto, ricerca e riflessione.
Enrico Dindo, partiamo dal testo: qual è il suo approccio nei confronti di questo monumento rappresentato dalle Suite per violoncello solo di Johann Sebastian Bach?
«La mia lettura di quest’opera si basa sulla copia manoscritta della moglie di Bach, Anna Magdalena, vale a dire la fonte ritenuta la più vicina all’autore, non essendoci pervenuto l’autografo originale dello stesso Bach. Un approccio, questo, che mi ha permesso di mettere a fuoco molte differenze rispetto a una lettura più classica di queste pagine, una visione che io stesso avevo conosciuto e acquisito fin dal periodo della mia formazione. Si tratta di una tradizione di insegnamento che deriva in larga parte dalla scuola di Casals e dalla sua visione, per così dire, consolidata dell’opera bachiana. Una riscoperta, la sua, nutrita da un afflato romantico, indirizzato verso una enfatizzazione del dato cantabile, particolarmente propenso a un certo slancio melodico. Ritornare alla fonte di Anna Magdalena per me ha significato pormi a confronto con uno scarto netto, dove le pagine che avevo di fronte mi restituivano un segno musicale più essenziale, una sorgente attraverso la quale una miriade di indizi componevano una visione più limpida della struttura di queste composizioni, rendendone trasparente fin dalle fondamenta l’intera architettura. Tutto questo mi ha messo dinnanzi anche a diverse problematiche relative al mio strumento».
Vale a dire?
«Per iniziare ci sono questioni legate ai confronti tra le caratteristiche degli strumenti dell’epoca di Bach e quelli tradizionali, a partire dalle corde di budello o di acciaio, per arrivare all’arco barocco o moderno, al puntale e così via. Si tratta di analizzare i diversi aspetti presentati dalle caratteristiche, rispettivamente, degli strumenti antichi e moderni e trovare, per quanto possibile e compatibile con la propria visione espressiva e interpretativa, un punto di equilibrio. Tutto questo naturalmente non riguarda nello specifico il legno che costituisce la tavola armonica del mio violoncello, un Rogeri del 1717, quindi quasi coevo delle Suite di Bach. Ma per il resto si tratta di scelte che segnano, in un senso o nell’altro, il risultato della tua interpretazione. La cosa importante è indirizzare lo sguardo in una direzione, a prescindere dallo strumento che ti ritrovi sotto le dita».
Può darsi… anzi, certamente… ma lo strumento rimane una questione importante e interessante… Proviamo a entrare un poco più nel dettaglio?
«Beh, se mettiamo a confronto il violoncello barocco con la sua versione più moderna o tradizionale, se vogliamo definirlo così, possiamo rilevare pro e contro in entrambi i casi. Per quanto riguarda lo strumento moderno, uno dei vantaggi è senz’altro rappresentato dai volumi di suono che esso è in grado di emettere, una prerogativa certamente non di poco conto. Tra i limiti, invece, possiamo individuare le articolazioni meno efficaci, per esempio, nello staccato: con le corde di budello e l’archetto barocco abbiamo una particolare pronuncia, una caratteristica che con lo strumento moderno deve essere oggetto di ricerca, di studio mirato».
Altri vantaggi dello strumento antico?
«Il timbro. L’arco barocco che mette in vibrazione le corde di budello genera un suono, una voce dello strumento specifica, differente. Con un archetto moderno e le corde di acciaio la ricerca di questo tipo di suono è, diciamo così, un po’ più complicata…»
Certo, e se poi sul leggio c’è Bach, Johann Sebastian naturalmente…
«Certamente la musica di Bach rappresenta una sorta di linguaggio universale. Io mi sorprendo sempre di come le composizioni di questo autore riescano a mantenere una loro sostanza profonda anche messe a confronto con dimensioni strumentali che in prima istanza non le sono proprie, almeno originariamente. Pensiamo solo alle pagine di Bach restituite attraverso il pianoforte, oppure rilette da una marimba o altri strumenti a percussione. Queste opere possono passare attraverso mille metamorfosi, ma sono e restano sempre dei capolavori assoluti. In questo senso mi capita ogni tanto, nella mia attività didattica, di tranquillizzare i miei allievi sostenendo che “per quanto ci impegniamo, la musica di Bach non si rovina mai”».
Veniamo ora al programma che ha scelto per questo concerto di Ferrara Musica: perché le Suite 2, 3 e 4?
«Vede, io raggruppo personalmente le sei Suite in diverse combinazioni: tre gruppi da due Suite oppure due gruppi da tre Suite. Nel primo caso la distinzione è stata dalla distribuzione dei movimenti di danza centrali: Minuetto per la prima e la seconda, Bourrée per la terza e la quarta, Gavotta per la quinta e la sesta. Nel secondo caso la distinzione riguarda lo sviluppo dell’impegno tecnico, indotto in maniera graduale dalla più accessibile alla più impegnativa, delle diverse composizioni: in pratica, è come se le prime tre Suite rappresentassero la prima parte di un ideale corso di formazione per interpreti del violoncello, mentre le successive tre raffigurassero il corso avanzato, quello tecnicamente più ardito».
Quindi il programma proposto a Ferrara rappresenta una scelta mediana…
«Si tratta sempre della ricerca di un punto di equilibrio, e le tre Suite che ho scelto mi pare che rappresentino bene questo tipo di indagine. La seconda è segnata da un carattere dolce e cantabile, la terza presenta significativi passaggi basati su scale, che portano la tessitura verso l’alto introducendo un elemento tecnico importante. La terza, infine, prosegue sull’evoluzione dell’impegno tecnico attraverso l’uso generoso di salti ad intervalli anche considerevolmente distanti verso l’alto, elemento che rappresenta per uno strumento come il violoncello una sfida tutt’altro che scontata».
Un approccio personale e interessante al tempo stesso alla scelta del repertorio per un concerto…
«Diciamo che, ormai, sono quasi 50 anni che mi confronto con queste pagine e mi pare naturale che abbia maturato una mia visione personale. Piuttosto, anche pensando alla mia attività didattica e al confronto con i miei allievi, mi sorprendo sempre di quanti siano i giovani che, esattamente come me, passano ore e giornate a studiare una pagina musicale. Ogni volta che sento il loro entusiasmo, o che assisto ai successi di giovani capaci di affermarsi in vetrine importanti – come, per esempio, in occasione delle recenti soddisfazioni che abbiamo ottenuto in concorsi come il Paganini o lo Chopin – mi sento attraversato da un’energia positiva. Credo che i giovani capaci di coltivare l’arte, di divenire veicolo per la sua diffusione in favore sia dei loro coetanei sia delle altre persone, rappresentino il più efficace viatico per un futuro migliore».