Il signor Bruschino in barca
La farsa del ventenne Rossini in una riuscita produzione del ROF
Alla fine del Settecento e all’inizio dell’Ottocento col termine farsa non si indicava un’opera farsesca nel senso corrente - esistono anche farse “serie” - ma una piccola opera in un atto, senza cambi di scena, senza coro, con piccola orchestra e con parti vocali non troppo esigenti, quindi adatta ai teatri secondari. Rossini ne scrisse cinque, tutte per il Teatro San Moisè di Venezia, e l’ultima fu Il signor Bruschino, che fu un fiasco totale e fu tolto dal cartellone dopo una sola recita. Eppure Rossini, pur non avendo ancora compiuto ventun’anni, non era certo un pivellino, perché aveva già scritto con successo per Bologna, Roma e Milano e appena dieci giorni dopo il Bruschino avrebbe fatto rappresentare Tancredi e quattro mesi dopo L’Italiana in Algeri, primi suoi grandi e incontestabili capolavori nel genere serio e nel buffo.
Dunque non dobbiamo aspettarci qualcosa di farsesco in senso deteriore. Il soggetto di questo breve atto unico è preso da una commedia francese in cinque (!) atti, che ironizzava sulle meschinità della piccola nobiltà e della borghesia del tempo, tanto da attirare l’attenzione della censura francese nel periodo della restaurazione, La musica di Rossini è elegante, ironica, surreale, tutto insomma, tranne che farsesca. E certamente non è farsesca la messa in scena della “ditta” Barbe & Doucet, formata dal regista Renaud Doucet e dallo scenografo e costumista André Barbe. La scena unica rappresenta a sinistra un barcone attraccato a un molo ingombro di casse, barili e cordami; a destra non c’è nulla, tranne una scialuppa e l’acqua del porto. Tutto è immerso nella luce dorata d’una giornata estiva. È un’ambientazione originale e piacevole ma ha qualche controindicazione: i cantanti devono muoversi in uno spazio molto ridotto e gli spettatori che stanno nei pachi di sinistra vedono solo la scialuppa e il mare, dove nessun personaggio mette mai piede.
In fin dei conti l’ambientazione tradizionale, che prevede gli interni di una casa borghese, resta la più adatta a questa vicenda, che non parla di marinai né di pescatori ma di nobili decaduti, vecchi borghesi un po’ rimbambiti e osti che faticano a farsi pagare il conto, cui si contrappongono due giovani che cercano di coronare il loro sogno d’amore a dispetto di quei vecchi attaccati soltanto al denaro. Non è gran male, perché la vicenda viene comunque raccontata con vivacità, leggerezza e ironia, puntando non tanto sulla presa in giro di questi personaggi un po’ ridicoli quanto sulla valorizzazione del vecchio ma sempre efficace espediente teatrale degli scambi di persona. La recitazione è comica senza esagerazioni, il ritmo teatrale è vivace e scorrevole. Cosa si potrebbe volere di più?
In scena agisce un cast di giovani e giovanissimi, tranne il veterano Pietro Spagnoli, un maestro del genere buffo, che ora non ha più bisogno di tingersi i capelli di bianco per interpretare Bruschino padre ma ancora conserva una voce freschissima. Ascoltarlo è un piacere per lo stile del canto e l’arguzia della recitazione: bisogna proprio sentire le inflessioni sempre sottilmente diverse che dà al tormentone comico con cui esprime il suo disagio “Uh! Che caldo”. Decisamente più giovane è il soprano spagnolo Marina Monzò, che si è perfezionata proprio all’Accademia Rossiniana di Pesaro. In scena si muove bene ma è soprattutto la voce che colpisce: il timbro non è particolarmente seducente ma il registro acuto è sicuro e il virtuosismo ragguardevole, come ha dimostrato nell’aria alquanto difficile, quasi da opera seria, scritta da Rossini per Sofia. Anche Gaudenzio ha alcune pagine dalla fitta ornamentazione, in cui il baritono Giorgio Caoduro inizialmente fatica un po’, ma poi si scioglie e si dimostra perfettamente padrone di questo ruolo. Florvil, il giovane innamorato di Sofia, è il tenore americano (lo si intuisce subito, quando canta i recitativi) Jack Swanson, buon attore e cantante non più che discreto: nel complesso un po’ pallido. Bruschino figlio è un secondo tenore, Manuel Amati, che ha voce piccola ma gradevole e usata correttamente, però non è così irresistibilmente comico come potrebbe e dovrebbe essere. Ottimo il livello degli interpreti dei ruoli minori, che erano Enrico Iviglia, Gianluca Margheri e Chiara Tirotta.
La posizione dell’orchestra al centro della platea del Teatro Rossini – gli spettatori sono soltanto nei palchi – non facilita il compito di Michele Spotti, considerato uno dei più promettenti giovani, giovanissimi direttori d’orchestra italiani. Quindi è assolutamente giustificabile qualche problema nel rapporto con i cantanti, come le piccole discrepanze del ritmo e i leggeri squilibri delle dinamiche. Ma il suo gesto molto vistoso non sembra sempre chiarissimo, e questo non aiuta. Comunque i ritmi sono vivaci, vivacissimi, e i colori orchestrali saporiti. La Filarmonica Gioachino Rossini (la piccola Pesaro ha due orchestra sinfoniche, semistabili) non sarà alla pari delle Filarmoniche di Vienna e di Berlino ma si difende benissimo. Vero è che la posizione infelice rende spietatamente percepibili anche le più piccole incertezze alle orecchie del pubblico dei palchi sovrastanti, ma si può esser sicuri che questo e altro succedeva quando a suonare era l’orchestra del San Moisè veneziano. Quindi non facciamo i censori e godiamoci questa produzione sostanzialmente felice della farsa del giovanissimo Rossini.
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