Primal Scream e Savages, canzoni dell’amore perduto
In Utopian Ashes duettano Bobby Gillespie dei Primal Scream e Jehnny Beth delle Savages
La prima volta, nel 2015, Bobby Gillespie e Jehnny Beth avevano cantato in coppia “Dream Baby Dream” al Barbican di Londra, durante un serata in onore dei Suicide. E l’anno seguente, nel corso del “Downs Festival” a Bristol, lei si è unita alla band di lui in una versione di “Some Velvet Morning”.
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Quest’ultimo – classico country noir di Lee Hazlewood, che l’autore interpretò duettando con Nancy Sinatra – è un buon indizio per decifrare la natura della collaborazione estemporanea fra il rocker maudit Bobby Gillespie e la fatale Jehnny Beth, sempre più distante dalle Savages, tra divagazioni discografiche da solista (il non troppo convincente To Love Is to Live del 2020) e crescenti impegni cinematografici (presto la si vedrà a Cannes recitare nel film di Jacques Audiard Les Olympiades).
Dopo aver rimuginato un po’ su questo progetto a quattro mani, i due si sono ritrovati in studio a Parigi – un ritorno a casa per Beth, nata Camille Berthomier a Poitiers nel 1984 – con l’intenzione di dargli forma, spostandosi successivamente nella capitale britannica allo scopo di ultimarlo, affiancati da compagni d’avventura abituali: il connazionale Nicolas Congé, alias Johnny Hostile, per l’una (emigrarono insieme oltremanica nel 2006 in cerca di fortuna) e il resto dei Primal Scream (Andrew Innes, Martin Duffy e Darrin Mooney) per l’altro, alla prima sortita individuale.
Volendo trovare qualche analogia sonora nelle rispettive carriere, si potrebbe indicare Give Out But Don’t Give Up: l’album realizzato dalla formazione scozzese in scia al celebre Screamadelica, da cui si distanziarono per immergersi in un bagno di tradizionalismo affine all’“esilio sulla via maestra” praticato dai Rolling Stones in Costa Azzurra mezzo secolo fa. Qui si ritrova quell’atmosfera in “You Heart Will Always Be Broken”, ad esempio. A insaporire la ricetta c’è però una dose consistente di spleen da Rive Gauche, nel valzer brumoso e decadente di “English Town” e nell’incipit del disco, “Chase It Down”, dove gli archi riecheggiano quelli orchestrati da Jean-Claude Vannier per Gainsbourg all’epoca di Melody Nelson.
Dice “Serge” Gillespie: “Il tempo scivola via, un giorno dopo l’altro, e nemmeno ti amo più”. Ribatte Jehnny “Birkin” sconsolata: “Chi verrà a salvarci adesso?”. Il racconto è tematico: una relazione coniugale agli sgoccioli, cosicché l’amore è “utopia” ridotta in “cenere”, suggerisce il titolo. “Possiamo dormire insieme, ma siamo davvero soli”, considera amaramente Bobby in “Remember We Were Lovers”, cullato da un malinconico languore lounge.
Il dialogo fra le voci dei protagonisti tesse la trama narrativa dell’opera. “Sei diventato qualcuno che non conosco”, afferma lei in “You Can Trust Me Now”, per sussurrare poi in “Living a Lie”: “Ti domandi perché non faccio più sesso con te”. E lui, all’epilogo, in “Sunk in Reverie”: “Non c’è più nulla di eccitante”. Niente di nuovo, insomma: né in termini di tòpos, né sul piano della costruzione musicale. Eppure il disincantato fascino rétro di Utopian Ashes fa il suo effetto.