Quasi trent’anni di differenza, lei giovane cameriera in un locale, lui affermato pianista jazz alle soglie di una decadenza psico-fisica ormai imminente: una storia d'amore maturata nell’ambito musicale e culturale newyorkese che viene ora diffusa anche nel nostro Paese grazie alla pubblicazione del volume di Laurie Verchomin Il grande amore. Vita e morte con Bill Evans (Minimum Fax 2021, pp. 176, 16,00 euro).
La vicenda inizia nell’aprile del 1979 e prende le mosse dall’incontro tra Laurie Verchomin, ventiduenne cameriera in una chiesa sconsacrata di Edmonton (Canada) riconvertita in ristorante e jazz club, e Bill Evans, grande pianista dal carattere schivo e riservato che si trova a esibirsi proprio in quel locale con il suo trio. Da quel momento fino alla morte del musicista avvenuta nel settembre del 1980 Laurie ha vissuto accanto a Bill Evans in una sorta di connubio nutrito da una originale miscela fatta musica, sesso, scrittura, fiducia e tanta tenerezza.
Questo è il clima che emerge dalle pagine di questa sorta di personale memoir che la Verchomin ha deciso di pubblicare a sue spese nel 2010 e che oggi rappresenta un interessante documento attraverso il quale scoprire un lato intimo e inedito di un musicista peraltro celebre e celebrato come lo stesso Evans.
Dal trasferimento a New York alle passeggiate per il Greenwich Village tenendosi per mano, ai tanti momenti vissuti accanto a un uomo dal corpo martoriato ma dalla disperata vitalità – confluita in una creatività musicale inesausta e che si rispecchia tra l’altro in “Laurie”, struggente brano che Bill le dedica – l’autrice racconta il suo punto di vista, i suoi ricordi di quello che ha vissuto, appunto, come un grande amore.
Un sentimento in grado anche di affrontare il problema legato dalla dipendenza dalle droghe, e dalla cocaina in particolare, che ha condannato il musicista: «Mentre lui è intento in questa attività – scrive la Verchomin – io rimango da sola, a scrivere e fumare nella stanza accanto. Ogni volta che si chiude lì dentro mi viene l’angoscia, chiedendomi cosa fare se dovesse non uscirne. È come la roulette russa».