Il Trovatore  al Circo Massimo, normale, troppo normale

Primo spettacolo dell’Opera di Roma dopo l’ultimo lockdown: luci e ombre del ritorno alla normalità

Il Trovatore (Foto Fabrizio Sansoni)
Il Trovatore (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Roma, Opera di Roma, Circo Massimo
Il Trovatore
15 Giugno 2021 - 06 Luglio 2021

Dopo Rigoletto  di Michieletto e Il Barbiere di Siviglia  e La Traviata  di Martone, tutti e tre con Gatti sul podio, l’Opera di Roma è tornata alla normalità col normalizzarsi della situazione sanitaria. Ma per quel che riguarda il Covid non siamo ancora alla normalità totale, mentre per quel che riguarda questo nuovo allestimento de Il Trovatore  si può veramente parlare di piena normalità, che per un’opera così straordinaria non è un risultato positivo al 100%.

I cantanti hanno fatto il loro dovere, ma basta? Roberta Mantegna, nonostante un paio di note agli estremi opposti della tessitura siano leggermente stiracchiate, canta correttamente la sua meravigliosa cavatina e cabaletta: questa pagina lirica, dove la luna è argentea, i versi melanconici, la gioia angelica e il guardo estatico, è adatta alle sue autentiche qualità vocali. Ma l’espressione è piuttosto monotona, con una generica tendenza al lamentoso, sia qui che nel prosieguo dell’opera. La Mantegna si riscatta però nel finale, dal Miserere in poi, che è nettamente migliore rispetto a Macerata la scorsa estate.

Fabio Sartori è al suo secondo Manrico dopo quello non entusiasmante di Liegi di tre anni fa e non sembra aver fatto grandi progressi. Probabilmente è più vicino di certi tenori stentorei di un tempo alla voce (Rodolfo Celletti ha definito Manrico un tenore contraltino, sicuramente esagerando un po’ per amor di polemica) a cui pensava Verdi per questo poeta “deserto sulla terra”, che ha come “sola speme un cor”. Ma non gli basta per essere il Manrico ideale, non tanto perché lascia trapelare qualche insicurezza, spiana gli abbellimenti di “Ah sì, ben mio” e nella “Pira” si aggiusta la parte e taglia - questo sarebbe giusto farlo sempre - l’incongruo acuto finale, ma soprattutto perché il fraseggio è piatto, l’accento moscio e l’espressione carente, quando non del tutto assente.

Clémentine Margaine fa un’ottima impressione al suo ingresso in scena con “Stride la vampa”, poi si assesta su un livello non eccezionale ma resta comunque una Azucena di buon livello. Il baritono Christopher Maltman ha una voce interessante, ma non schiettamente verdiana, e come interprete è altalenante: talvolta ricorre a qualche forzatura fuori stile per fare il ‘cattivo’, ma nel “Balen del suo sorriso” ha delicate e suggestive mezze voci e nel duetto con la Mantegna della quarta parte ci offre uno dei momenti di maggior tensione drammatica della serata.

Tra i ruoli minori è da segnalare l’Ines della giovane Marianna Mappa, una voce importante, che si sta formando nel progetto “Fabbrica” dell’Opera.

Essere costretti a fare la cernita tra il buono e il meno buono nelle prestazioni dei cantanti non è certamente un buon segno. Invece questo non è necessario nel caso di Daniele Gatti, che col Trovatore completa la sua trilogia popolare verdiana all’Opera in questi tempi di pandemia. Come nei casi precedenti rilegge la partitura senza guardare indietro alla tradizione e alcune volte i risultati collimano, altre volte  sono diversi ma totalmente condivisibili, tranne da chi, per aver ascoltato qualche volta quest’opera, crede di essere il depositario della verità verdiana. Gatti non si sente sminuito quando deve limitarsi ad accompagnare i cantanti, e lo fa molto bene, perché sa che in Verdi l’orchestra non sempre è raffinata protagonista ma è comunque essenziale al risultato drammatico. Ma il direttore milanese dà il meglio di sé nelle pagine in cui la scrittura orchestrale di Verdi è più originale, come il breve e spesso trascurato preludio, il coro degli Zingari e la canzone e il racconto di Azucena che vi sono incastonate, il Miserere.

Anche a proposito della messa in scena non si è costretti a fare la cernita tra il buono e il meno buono, perché il buono purtroppo non si riesce a trovarlo. Ad essere generosi si possano salvare i video di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attili proiettati sul grande schermo che chiude l’enorme palcoscenico del Circo Massimo: niente di nuovo – cieli prevalentemente notturni e tempestosi, qualche lingua di fuoco quando in scena si nominano roghi e fiamme – ma comunque fa atmosfera. Pressoché inesistenti (supponiamo per motivi essenzialmente pratici) le scene di William Orlandi, consistenti in quattro lunghi tavoli, due bianchi e due neri, combinati in diversi modi nei vari quadri dell’opera: prima erano in scena i due neri, poi i due bianchi, poi tutti e quattro, poi nessuno, infine di nuovo tutti e quattro ma rovesciati o sbilenchi. Durante i cambi di scena qualcuno tra gli spettatori scommetteva ridacchiando sul prossimo nuovo avatar di questi tavoli. Pressoché inesistente anche la regia di Lorenzo Mariani: forse l’intenzione era fare piazza pulita del bric-à-brac che si vede talvolta nel Trovatore  ma non ci si può fermare lì.

Un’ultima annotazione: in un grande spazio all’aperto l’amplificazione è indispensabile, ma qui si è esagerato, spesso era tutto fortissimo, le sfumature dinamiche sparivano, le note acute dei flauti (probabilmente non ben microfonati) si trasformavano in fastidiosi sibili, e qui ci fermiamo. Si spera che tutto sarà calibrato meglio nelle prossime repliche.

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