Il lockdown operoso di Paul Weller
Fat Pop è il nuovo album di Paul Weller. Non un capolavoro ma neanche tutto da buttare
Fat Pop (Volume 1) è il sedicesimo album solista di Paul Weller, uscito a meno di un anno di distanza dal precedente On Sunset. Accolto generalmente bene dalla stampa specializzata britannica, per la quale Weller è un’istituzione, Fat Pop in realtà mi sembra inferiore a On Sunset, il classico disco che ascolti due o tre volte e che poi dimentichi.
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Dopo la pubblicazione di On Sunset non c’erano le condizioni per andare in tour e allora, invece di dedicarsi alla famiglia e limitarsi a pubblicare sui social video di esibizioni domestiche, come hanno fatto molti suoi colleghi, ecco che Weller registra sul telefono alcune canzoni – dodici per la precisione – e le manda ai suoi collaboratori perché ci lavorino su, per poi arrangiarle e registrarle al gran completo nel suo studio nel Surrey una volta che la situazione sanitaria lo ha permesso.
Concepite originariamente come canzoni che avrebbero potuto uscire come singoli, alla fine sono state compattate in questo album – il quinto in sei anni! – il cui titolo possiamo tradurre con “pop di sostanza”, ma mi piace pensare che anche Weller abbia messo su qualche chiletto durante la reclusione forzata e allora va bene anche “pop grassoccio”.
A fine febbraio ecco uscire “Cosmic Fringes”, synth pesanti e andamento vocale che in alcuni punti ricorda pericolosamente Ian Dury: è accompagnato da un video che vi propongo.
“Shades of Blue” arriva a metà aprile: pianoforte martellante, un sapore Brit pop come se Damon Albarn decidesse di cantare una canzone di Weller, e la presenza di sua figlia Leah. «Spendi tutta la tua vita per poi scoprire che tutto ciò che conta è vicino a te»: senza dubbio uno dei pezzi forti della raccolta.
Sullo stesso piano metto la successiva “Glad Times”, pezzo malinconico su un rapporto amoroso entrato in crisi ma che forse può essere salvato, aspettando tempi migliori: «Il martedì è lento, non riesco a capire nulla di cosa stia succedendo qui, andiamo avanti per giorni senza una parola, senza un bacio, cercando entrambi qualcosa che abbiamo perso». È una formula già sentita ma rimane il fatto che quando Weller ci vuole spezzare il cuore lo sa fare piuttosto bene.
Sulla stessa falsariga si muove “In Better Times”, mentre “Moving Canvas” è un tributo sporcato di blues a Iggy Pop (ormai i due hanno le stesse rughe ben marcate): «Questa pittura in movimento è consumata bene, il suo corpo rotto e con le cicatrici della battaglia, questo trionfo si ottiene con un certo costo, per ogni guadagno c’è una grande perdita».
La title-track ha profumi medio-orientali, in alcuni momenti mi ha fatto venire in mente “The Lodgers” degli Style Council, ma non riesce ad ammaliare – e di nuovo lo stile della voce usato da Weller mi ricorda molto quello di Albarn.
Il compito di chiudere il disco spetta a “Still Glides the Stream”, sorta di chamber pop scritto da Steve Cradock, chitarrista degli Ocean Colour Scene e collaboratore di lungo corso di Weller.
Mi rendo conto che sto parlando di questo disco in maniera meno dura di quanto intendessi fare in origine: rimango dell’idea che sia impossibile che Weller faccia un disco decisamente brutto, bene o male si trova sempre qualcosa che piace, anche se la precisazione Volume 1 lascia intendere la possibilità di un seguito e ciò mi lascia un po’ perplesso.
Negli ultimi anni il Modfather ha preferito sperimentare nuove strade, scegliendo di non vivere di rendita su un passato glorioso, e di ciò gli va dato atto. Sta facendo solo quello che gli piace fare: che piaccia anche ai suoi ascoltatori – e con questa frequenza - è tutto un altro paio di maniche.