Con il nuovo disco Italian Baroque Mandolin Sonatas dedicato a sonate inedite del Barocco italiano (Deutsche Harmonia Mundi), l’ensemble Artemandoline continua la sua esplorazione dei repertori musicali di una famiglia di strumenti discendenti dal liuto.
Ne parliamo con i due fondatori spagnoli del gruppo, che pur utilizzando le diverse tipologie storiche e regionali dello strumento, hanno una particolare predilezione per il mandolino barocco.
Come e quando si è formato l’ensemble Artemandoline?
MARI FE PAVÓN: «Con Juan Carlos ci siamo conosciuti in Spagna nel 1990 in occasione del Festival Internacional de Plectro de La Rioja, e dopo aver completato gli studi, io in Spagna e lui in Lussemburgo, ci siamo specializzati in Germania, a Colonia, studiando con Marga Wilden-Hüsgen. Oltre allo studio del mandolino classico, ci siamo dedicati allo strumento barocco, grazie alla passione che ci ha trasmesso la nostra insegnante. È stata lei a spingerci a cercare il repertorio che era sparso in varie biblioteche del mondo. Così abbiamo scoperto questo mondo affascinante, di musiche dormienti in vari luoghi che nessuno aveva più suonato, e abbiamo deciso di occuparcene fondando Artemandoline nel 2005 in Lussemburgo, dove viviamo».
JUAN CARLOS MUÑOZ: «Prima di fondare l’ensemble attuale, abbiamo fatto molte cose creando gruppi e suonando musiche di diverse epoche, del classicismo fino alla musica contemporanea, ma poi abbiamo deciso di dedicarci specificatamente al mandolino barocco. Per esempio sapevamo che c’erano dei manoscritti conservati a Washington, ma cercando abbiamo poi trovato altro, come spesso accade. Il nostro obiettivo principale era suonare questa musica con strumenti che potessero restituire il suono il più vicino possibile a quello originale, e per questo utilizziamo strumenti storici originali e delle copie realizzate sui loro modelli».
«Il nostro obiettivo principale era suonare questa musica con strumenti che potessero restituire il suono il più vicino possibile a quello originale».
PAVÓN: «Cercando si scoprono sempre cose inaspettate. A volte le partiture di mandolino si trovano insieme a quelli di strumenti a corde, ma spesso bisogna verificare di persona, perché si trovano fuori posto e non sono classificate correttamente».
Su quali musiche avete iniziato a lavorare dopo avere formato il vostro ensemble?
MUÑOZ: «Abbiamo iniziato dal repertorio di Domenico Scarlatti, perché alcune sonate possono essere suonate solo con il mandolino lombardo, accompagnato da violone e clavicembalo. Poi abbiamo cercato musiche vocali nelle quali era previsto l’accompagnamento di mandolino e abbiamo scoperto che molti artisti napoletani del XVIII secolo, non solo cantanti, vivevano a Parigi, come Gabriele Leone e Giovanni Battista Gervasio, che furono maestri di mandolino di corte, e suonarono nei celebri Concerts Spirituels. Lo strumento era molto in voga presso l’aristocrazia, e a questo proposito va ricordato che alcuni francesi all’epoca italianizzarono il loro nome come Pietro (Pierre) Denis e Giovanni Fouchetti (Jean Fouquet)».
Quali sono le differenze tra mandolino lombardo e mandolino napoletano?
PAVÓN: «È come fra gli italiani del nord e quelli del sud [risata]. Il mandolino del nord viene direttamente dal liuto, con le sue sei corde doppie attaccate sulla tavola armonica e accordate per quarte e terze. Lo strumento è fatto soprattutto per realizzare accordi e accompagnare il canto e la musica strumentale, e si suona con un plettro fatto di penna di pavone, ma si utilizzavano anche le dita, anche se in questo caso il suono è piuttosto debole. In ogni caso dipende anche dal repertorio, e per esempio se si suona qualcosa di molto energico va usata una piuma giovane. Il repertorio più antico, che va dal 1650 al 1750 riguarda Venezia, Bologna, Firenze e Roma. Handel, Galuppi, Lotti, e non solo Vivaldi hanno scritto per lo strumento, che a Venezia era molto popolare all’epoca».
«Durante la Rivoluzione francese tutti i mandolinisti hanno lasciato la Francia trasferendosi a Vienna, Praga, Londra, e lo strumento ha conosciuto una sorta di rinascita. La nostra insegnante ha contribuito a riscoprirlo, e oggi ci sono alcuni compositori che scrivono per mandolino lombardo, come ad esempio Chris Acquavella, un americano che si è dedicato allo strumento solista».
«Il mandolino napoletano è comparso verso il 1750 e continua a esser usato fino ai giorni nostri. A proposito di Vivaldi si deve ricordare che nello stesso concerto in Do maggiore, ha inserito dei passaggi differenti, destinati alternativamente al mandolino lombardo e a quello napoletano. Naturalmente va specificato che l’accordatura differente influisce anche sulla tecnica esecutiva».
MUÑOZ: «Il mandolino napoletano ha quattro corde doppie ed è accordato per quinte come il violino. Nel XVIII si suonava anche con il plettro, sia di piume che di legno di ciliegio. Gli strumenti dei grandi liutai partenopei come Donato Filano e Antonio Vinaccia venivano esportati in diversi paesi, ed erano presenti ad esempio nella corte di Lisbona e di Madrid. Noi li possediamo: io ho uno strumento di Antonio Vinaccia del 1780 mentre Mari Fe uno di Donato Filano del 1777, e nonostante l’età suonano ancora molto bene».
Tra i progetti concertistici e discografici che avete realizzato ce n’è uno al quale siete particolarmente legati?
MUÑOZ: «Grazie alla collaborazione con il soprano Nuria Rial, ci siamo resi conto di quanto fosse importante la presenza del mandolino all’epoca e per noi si è aperto un nuovo orizzonte. Il mandolino era parte integrante dello strumentario del tempo ed esplorando le musiche di Vivaldi, Handel, Albinoni, Galuppi, Traetta, Bononcini, per fare qualche esempio, abbiamo scoperto circa 250 arie accompagnate dallo strumento, cui abbiamo dedicato due dischi che ne contengono una parte, intitolati Sospiri d’amanti e Venice’s Fragrance».
PAVÓN: «Sono dei gioielli che nessuno aveva eseguito prima. Quando abbiamo inviato le arie al soprano, Nuria è rimasta sorpresa e stupita del fatto che prima di noi nessuno avesse prestato attenzione a questo repertorio».
Pensate di continuare a esplorare questo aspetto poco noto della storia dello strumento?
MUÑOZ: «Sì, e abbiamo molti altri progetti e idee. Purtroppo questa pandemia ha rallentato il nostro lavoro, ma ci dedicheremo sia a questo repertorio che ad altri più intimistici. Non bisogna dimenticare che il mandolino era considerato un colore timbrico tipicamente italiano. Tra il 1650 e il 1750 nelle opere, negli oratori e nelle cantate la parte del mandolino era molto importante, e in epoca classica lo strumento nell’opera era presente nelle serenate con la funzione ludica di ‘cartolina postale d’Italia’. Basta ricordare quella del Don Giovanni di Mozart. »
Con il vostro ultimo disco avete rivelato altre pagine inedite.
MUÑOZ: «Da molto tempo avevamo in mente di eseguire delle sonate mai registrate prima, che sono conservate a Washington, Milano, Firenze e nella abbazia di Münster in Germania. Abbiamo cercato una maniera nuova per interpretarle con un basso continuo orientati alla ricerca di colori differenti. Volevamo mostrare delle sonate legate agli ambienti di Roma, Bologna, e Firenze. Alcuni di questi compositori erano al servizio dei Medici, in qualità di tiorbisti, chitarristi e mandolinisti, come nel caso di Niccolò Susier, ed erano piuttosto noti all’epoca. Nicolò Romaldi ad esempio scrisse il terzo atto de Il Tigrane (il secondo è di Vivaldi e il primo di Micheli), e per la sua musica nell’adagio della sonata si potrebbe parlare di “stilus phantasticus”. Invece dell’abbate Ranieri Capponi non sappiamo quasi nulla. In ogni caso si tratta di sonate molto interessanti musicalmente, nelle quali la frequente presenza del basso ostinato offre interessanti possibilità di esecuzione».
PAVÓN: «Sì, in quelle di Sesto da Trento c’è un aspetto drammatico, quasi teatrale che è molto affascinante, e le sonate di Susier, sono caratterizzate da gioiosi ritmi di danza. Più in generale i temperamenti e i colori hanno una fondamentale influenza sulle emozioni da trasmettere, e per questo abbiamo lavorato accuratamente alla realizzazione del basso continuo, che cambia da sonata a sonata per cercare l’atmosfera giusta. Abbiamo scelto i musicisti uno a uno, perché cercavamo artisti capaci di condividere pienamente questo progetto, come il chitarrista Manuel Muñoz, un eccellente musicista che suona sempre con noi».
MUÑOZ: «Tra l’altro registriamo i nostri dischi quasi sempre in una chiesa romanica sconsacrata, che si trova in Francia ma molto vicino al Lussemburgo, a Mont-Saint-Martin, e che ha una acustica fantastica».
Si tratta di musiche che offrono una certa libertà all’interprete, e dunque diverse soluzioni esecutive.
PAVÓN: «Lavorando sui manoscritti si ha la fortuna di comprendere molte cose di queste musiche, soprattutto per quanto riguarda i preludi nei quali si trovano molte note lunghe tenute. L’interprete deve sviluppare la musica a partire da questo creando qualcosa di interessante. All’epoca con il mandolino a corde doppie si suonavano arpeggi e scale lasciati alla fantasia dell’esecutore, che in quel caso diviene anche in parte compositore. I copisti a volte scrivevano solo l’armonia, perché sapevano che i mandolinisti conoscevano come sviluppare quella musica: pensiamo a ciò che in epoca moderna fanno i jazzisti».
«I copisti a volte scrivevano solo l’armonia, perché sapevano che i mandolinisti conoscevano come sviluppare quella musica: pensiamo a ciò che in epoca moderna fanno i jazzisti».
«Dopo tanta ricerca, data la conoscenza di tutto questo repertorio, ci prendiamo la libertà di improvvisare, rispettando sia la composizione, che il luogo della sua creazione e la natura dello strumento. Anche l’armonia del continuo offre molte informazioni su come improvvisare, come eseguire gli arpeggi, e le scale, se ascendenti o discendenti, e più o meno veloci. Romaldi, Susier e Trento nei preludi delle loro sonate presentano questo tipo di scrittura, e offrono molta libertà all’interprete».
Quali sono i prossimi progetti in cantiere?
JCM: «Stiamo preparando un nuovo disco che registreremo in estate e che sarà dedicato a musiche per mandolino nel periodo compreso tra il 1790 e il 1820. Per questo repertorio tardivo useremo sia il mandolino classico, quello cremonese che ha quattro corde semplici accordate per quinte, con una cassa armonica più piccola, ma anche il lombardo e il napoletano che erano ancora in uso all’epoca. Poi realizzeremo dei videoclip, e abbiamo dei concerti previsti in Polonia, Germania, Svizzera, anche con Nuria Rial. Più in generale continuiamo a lavorare sulla ricerca storica dell’interpretazione e questa ci permette di essere in continua evoluzione».