L’avventurosa prima volta dei Black Country, New Road
Il giovane collettivo inglese Black Country, New Road cerca una musica “totale”: la troverà?
Nei giorni scorsi i Black Country, New Road avrebbero dovuto debuttare in Italia, per l’esattezza al Circolo della Musica di Rivoli: appuntamento rinviato a inizio novembre prossimo. Premessa opportuna, poiché la band ha costruito la propria reputazione anzitutto dal vivo, diventando una della band più chiacchierate del momento, già nel mirino di New York Times e The Guardian.
Il Windmill di Brixton è il club nel quale si sono fatti le ossa: covo di una scena “art rock” che li vede accomunati ai vari Fat White Family, Goat Girl, Squid e black midi, questi ultimi in particolare, non a caso menzionati in un verso di “Track X”.
Un brano esemplare del modo in cui si esprime il collettivo londinese, originario però di Cambridge, dove cinque dei sette elementi che lo compongono agiva in precedenza nel progetto Nervous Condition, titolare di un album datato 2017: alcuni formati presso la prestigiosa Guildhall School e altri viceversa autodidatti. Spiega la bassista Tyler Hyde, figlia di Karl, punto focale degli Underworld: «Non siamo forzati di un genere specifico, vogliamo produrre qualcosa che sia piacevole e creativa». Intenzione lodevolissima: l’idea di una musica “totale” è utopia perseguita da molti in epoche differenti, facile da immaginare e tuttavia difficile da trovare. Qui concorrono a darle forma ascendenze di natura disparata. La tradizione klezmer, che definisce le incalzanti progressioni ritmiche di “Instrumental” e “Opus”, rispettivamente in apertura e chiusura di sequenza: «Musica da festa che suona triste», nelle parole del sassofonista Lewis Evans, fornitore principale di quella materia prima e responsabile di una vaga inclinazione al free jazz. Per ammissione degli interessati, ecco poi il “post rock” archetipico degli Slint, che fanno capolino nel testo di “Science Fair”.
Episodio dove risalta inoltre lo stile narrativo di Isaac Wood, chitarrista e voce recitante, che in un flusso di coscienza dal gusto postmoderno – è avido lettore confesso di Thomas Pynchon e David Foster Wallace – descrive ambienti e situazioni (nella circostanza: «Vivo ancora con mia madre, mentre mi sposto da un micro-influencer all’altro») farcendo il racconto di marchi e nomi, alla maniera di Bret Easton Ellis, ovvero citazioni (un debole per Springsteen: «Oh, ero nato per correre», nel pezzo in questione, e «sgommando in Thunder Road», durante “Opus”).
Prendiamo “Sunglasses”, uscito due anni fa su singolo e riproposto nell’occasione in versione riveduta e corretta: «Orli di gonna che salgono e quozienti d’intelligenza che scendono, le cose non sono più fabbricate come una volta, l’apice assoluto dell’ingegneria britannica». E dopo: «Sono invincibile con questi occhiali da sole, un moderno Scott Walker».
Che effetto fa tutto ciò? A tratti elettrizzante, tipo i migliori Jaga Jazzist con supplemento di storytelling, oppure – in certi passaggi prossimi al sempiterno “prog” – i connazionali These New Puritans di Hidden. Altrove sembra invece una di quelle insalate preparate aprendo il frigorifero e svuotandolo indiscriminatamente: troppi ingredienti assortiti purchessia. Hanno comunque belle facce da ventenni, grande entusiasmo e temperamento impudentemente anarchico, dunque suscitano simpatia. E affermano: «For the First Time è un documento autentico di quanto abbiamo fatto nel primo anno di attività. Ora stiamo imboccando una nuova direzione». Vedremo quale. E come.