Il Barbiere di Gatti e Martone nel Teatro dell’Opera totalmente deserto

La tristezza per il teatro vuoto viene mitigata dalla notizia che sono tantissimi gli spettatori che hanno seguito l’opera in tv

Il barbiere di Siviglia (Foto Yasuko Kageyama)
Il barbiere di Siviglia (Foto Yasuko Kageyama)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera
Il barbiere di Siviglia
05 Dicembre 2020

Una premessa, che forse è soltanto una “inutil precauzione”: in teatro il pubblico non è un accessorio ma una parte essenziale dello spettacolo e rappresentare un’opera senza pubblico è un non senso. Lo streaming e la televisione sono dei ripieghi, necessari in questo periodo, ma non possono sostituire lo spettacolo dal vivo, anche se, facendo di necessità virtù, le limitazioni attuali possono essere sfruttate per inventare nuove brillantissime soluzioni, come è avvenuto in questo Barbiere di Siviglia  romano.

Alcuni hanno definito quest’edizione un film d’opera, ma non siamo del tutto d’accordo, perché lo spettacolo si svolge quasi interamente in teatro, anche se la “quarta parete” viene totalmente abolita e l’azione invade la platea, i palchi e il foyer. Una sola volta deborda all’esterno del teatro, quando il direttore d’orchestra porta Figaro dall’albergo all’Opera in scooter, compiendo un giro turistico per Roma (il riferimento a Vacanze romane è evidente, ma questa volta c’è la variante ironica di Daniele Gatti e Andrzej Filończyk al posto di Audrey Hepburn e Gregory Peck). Durante il percorso in scooter il baritono inizia a cantare la sua cavatina, la prosegue nel foyer e, sostituiti gli abiti moderni con il costume di scena, la conclude nel momento in cui entra in sala. A saltare non sono soltanto i confini tra palcoscenico e sala e tra dentro e fuori ma anche tra presente e passato, perché la totale assenza del pubblico di oggi viene - per così dire - compensata da alcuni filmati in bianco e nero che mostrano il teatro pienissimo in occasione di qualche prima degli anni Sessanta, con personaggi mitici tra il pubblico, come la Magnani, la Lollobrigida e la Callas.

L’unico vago accenno agli ambienti in cui il libretto colloca l’azione è il palco che fa le veci del balcone da cui si affaccia Rosina per ascoltare la serenata di Lindoro. Per il resto il palcoscenico è la sala sono totalmente vuoti, tranne i lunghi nastri tesi in alto, creando una sorta di ragnatela e trasformando così la casa di Bartolo in una prigione per Rosina, che riesce a evaderne solo quando, al momento del lieto fine, quei nastri vengono tagliati con grosse forbici.

La mancanza delle scene non è assolutamente un limite per Martone, che ha il dono di saper fare grande teatro con pochissimo. Il ritmo teatrale è perfetto, senza un attimo di rallentamento o di grigiore, e la recitazione è naturale, vivace e scorrevole, senza alcuna traccia della gestualità esagerata e manierata che affligge (speriamo che presto si potrà dire affliggeva) la recitazione di tanti cantanti. Per interpretare i tre personaggi giovani si sono voluti tre cantanti poco noti, veramente molto giovani. Meno giovani all’anagrafe ma giovani di spirito erano i due notissimi interpreti di Bartolo e Basilio, indubbiamente scelti per le loro doti di attori, oltre che di cantanti. Questa netta differenza d’età tra gli interpreti evidenziava il conflitto generazionale che al suo tempo fece sembrare rivoluzionaria la commedia di Beaumarchais e che in parte sopravvive anche nella riduzione librettistica di Sterbini, al di sotto dell’esilarante fuoco di fila di inganni, travestimenti ed equivoci.

Figaro èil polacco Andrzej Filończyk: la sua cavatina non è l’istrionico monologo di un mattatore e così, liberato da quel tanto di esibizionismo e di sbruffoneria che spesso lo rende sottilmente antipatico, il factotum rossiniano torna a sprizzare allegria e vivacità. È giovane, spigliato e simpatico anche il Lindoro/Almaviva del russo Ruzil Gatin, che con queste qualità si fa facilmente perdonare qualche piccolo limite vocale, che ha consigliato di tagliare prudentemente “Cessa di più resistere”. Dalla Russia (non si potevano trovare interpreti altrettanto bravi a chilometri zero?) viene anche Vasilisa Berzhanskaya, che qualche mese fa avevamo ammirato come Romeo nei Capuleti e Montecchi di Bellini: ma il registro grave molto scuro non è adattissimo a Rosina e le mancano ancora l’arguzia e la malizia che sono ingredienti indispensabili dei personaggi dell’opera buffa. Anche se costretto dalla regia su una sedia a rotelle, l’intramontabile Alessandro Corbelli è un vero fuoco d’artificio, esaltato dalle telecamere che lo riprendono spesso in primo piano, rivelandone l’impareggiabile mimica facciale, che non si può apprezzare pienamente quando si è seduti in sala: che insuperabile maestro dell’opera buffa! Il Basilio di Alex Esposito è esente da eccessi macchiettistici e molto controllato e asciutto, diventando così un professionista dell’ipocrisia ancor più pericoloso. Benissimo anche la Berta di Patrizia Biccirè e il Fiorello di Roberto Lorenzi.

Daniele Gatti tiene saldamente in mano tutto e tutti. La sua bacchetta è infallibile e gli consente prodigi come prendere la stretta del finale primo a rotta di collo, senza alcuno scollamento di rilievo tra l’orchestra in buca e i solisti e il coro sparsi ovunque, davanti a lui sul palcoscenico e dietro di lui in platea e nei palchi. Il suo Rossini non è solo preciso e rigoroso, ma anche vivace, comunicativo, frizzante e molto teatrale.

Tutto questo è stato accolto da zero applausi, ma ha avuto seicentottantamila spettatori collegati via Rai.

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