Pole e la memoria
In Fading il produttore tedesco Stefan Betke descrive il trauma della demenza senile
Sarà per l’accresciuta aspettativa di vita, tale da consentire a molte più persone di raggiungere la tarda età, fatto sta che aumenta di pari passo l’attenzione verso i problemi derivati dalla degenerazione delle facoltà cognitive. In ambito musicale è diventato ormai un caso il progetto Everywhere at the End of Time firmato The Caretaker, di recente amplificato inopinatamente da TikTok, tanto da spingere il “New York Times” a occuparsene.
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Sull’argomento si applica adesso Stefan Betke, alias Pole: cinquantatreenne produttore originario di Düsseldorf affermatosi alla fine del secolo scorso con un trittico d’esordio – ristampato in cofanetto a metà primavera – che lo rese pioniere di un’estetica dell’avaria, il cosiddetto “glitch” (tutto perché scelse di continuare a usare il filtro danneggiato di un sintetizzatore analogico, ricavandone appunto sonorità difettose). L’eco di quell’esperienza si riverbera tuttora in ciò che fa: «Sullo sfondo di queste registrazioni si possono ascoltare piccoli schiocchi o anomalie: riferimenti diretti a quella trilogia», ha detto a proposito dell’album con il quale torna a farsi vivo a distanza di cinque anni dal precedente Wald.
Suggestionato dagli effetti della progressiva demenza senile di cui soffre la madre ultranovantenne, Pole ha creato musica intendendo esprimere quel senso d’inconsapevolezza e smarrimento. Alcuni episodi hanno titoli espliciti: “Erinnerung”, che in tedesco significa “memoria”, definisce una traccia dalla consistenza ectoplasmatica, mentre “Traum” ne designa un’altra esemplare del minimalismo dub-techno tipico di Pole, affine a quello dei contemporanei connazionali Basic Channel. Aperta dall’ambient vaporosa di “Drifting”, impercettibilmente increspata da impulsi percussivi, e chiusa dallo spleen elettronico di “Fading” («Riguarda l’idea di spegnersi e scomparire lentamente, ma chiunque se ne vada lascia qualcosa di sé: una sensazione, un’immagine o un’atmosfera», ha spiegato l’autore), la sequenza scorre su cadenze pigre, ricordando a tratti certo “downtempo” dal gusto jazz in voga oltre due decenni fa, come accade in “Tangente” e – in maniera meno consolatoria – in “Röschen”, che evoca una versione narcotizzata del Davis elettrico.
La quiete è tuttavia solo apparente: appena prima dell’epilogo, “Nebelkrähe” – ossia “cornacchia” – mostra il risvolto inquietante del vuoto generato dall’oblio.