Un Bob James tutto da riscoprire

Il pianista Bob James e il suo passato da musicista sperimentatore, prima degli anni Settanta dello smooth jazz

bob james trio
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Nella storia dei linguaggi musicali jazzistici, il nome del pianista e tastierista Bob James è saldamente legato al mondo della fusion e del cosiddetto smooth jazz, di cui è stato uno dei primi e più strutturati campioni, a partire dai primi anni Settanta fino alla celebrata avventura con i Fourplay.

Non meno interessante, specie per chi ama esplorare i percorsi un po’ carsici dello svilupparsi di un segno espressivo, è indagare i primi anni di carriera del musicista americano, quando, ben prima di comporre la fortunata sigla della sitcom Taxi (quella con Danny DeVito, i meno giovani magari la ricorderanno) e di accomodarsi tra i vincitori del Grammy insieme a Earl Klugh o David Sanborn, il nostro bazzicava ambiti ben più avanguardistici e sperimentali.

Musicista dotato di una sorprendente facilità esecutiva e compositiva, James si fa infatti notare all’epoca del college, intrecciando le proprie vicende con quelle dei compositori che bazzicano a Ann Arbor, compositori come Rober Ashley, Gordon Mumma o Roger Reynolds che formeranno lo ONCE Group, ma anche di jazzisti trasversali come Eric Dolphy. Non è un caso la presenza di James come esecutore nel bellissimo cofanetto della New World Music From The ONCE Festival 1961-1966.

Il debutto discografico jazzistico nel 1963, sotto lo sguardo lungimirante di Quincy Jones, avviene invece per la Mercury: si chiama Bold Conceptions, in trio con Ron Brooks al contrabbasso e Robert Pozar alla batteria. 

Ma gli appassionati di avanguardia lo notano nel 1965 per il ben più audace Explosions, inciso per la ESP: in trio con Barre Phillips al contrabbasso e ancora il fedele Pozar, James si avventura in un connubio tra il jazz di ricerca di quegli anni e l’elettronica degli esperimenti compositivi di Mumma e Ashley (presenti nel disco), con esiti talvolta più interessanti nel processo che non nella realizzazione, ma pienamente inseriti nella tensione creativa di quegli anni.

È proprio in quei mesi, con James impegnato a accompagnare la cantante Sarah Vaughan nelle notti newyorkesi, che il pianista viene contattato da un giovanissimo studente della Columbia, George Klabin. Klabin conduce una trasmissione per WKCR Radio dedicata alle nuove tendenze del jazz della Grande Mela e propone a James di registrare alcuni pezzi sul prestigioso Steinway del Wollman Auditorium dell’Università. 

Le sedute, due, una prima e una dopo la registrazione per la ESP, avranno sapori differenti e sono ora state pubblicate nel bellissimo Once Upon A Time. The Lost 1965 New York Studio Sessions dalla Resonance Records, etichetta che è stata fondata proprio da Klabin, che ha ritrovato nel proprio archivio i nastri.

Bob James

A gennaio James è con Larry Rockwell al basso e il solito Pozar alla batteria: il repertorio alterna due composizioni del pianista alla ripresa di “Lateef Minor 7” di Joe Zawinul (uscita pochi anni prima nel disco Three Faces Of Yusel Lateef) e a “Serenata” del compositore Leroy Anderson. Si incontrano qui un interplay che rimanda al trio Bill Evans, aperture armoniche e formali, sperimentazione timbrica e una curiosità verso soluzioni musicali elaborate che è certamente frutto della risposta delle esperienze “contemporanee” alla naturale propensione esplorativa di James.

Secondo Klabin, l’interesse nel trio da parte di Bernard Stollman della ESP deriva proprio dall’ascolto di questi nastri e in maggio James registra il già citato Explosions.

Per la seduta di ottobre, con Bill Wood (storico bassista di Randy Weston) al basso e Omar Clay alla batteria, Klabin chiede espressamente a Bob James qualcosa di più “mainstream” e il repertorio comprende il Sonny Rollins di “Airegin”, uno standard come “Indian Summer” e “Solar” di Miles Davis, cui si aggiunge un “Long Forgotten Blues”.  Il trio si muove con agilità dentro le strutture, dimostrando professionalità e fantasia pur senza spingersi nei territori più astratti dei mesi precedenti.

Cosa racconta di Bob James questa riscoperta, che completa idealmente una prima “trilogia” anni Sessanta con i dischi Mercury e ESP?

Quando lo ritroveremo, alla CTI di Creed Taylor, come arrangiatore e produttore, l’approccio è decisamente più commerciale e le sonorità virano verso l’elettricità, in un corpus di temi e nuances che faranno la gioia degli artisti hip-hop (pezzi come “Nautilus” o "Take Me to the Mardi Gras" sono stati più volte campionati) e solo forzatamente si potrebbe cercare di trovare nel suo percorso smooth jazz e fusion elementi di quel periodo “sperimentale”.

Bob James
Bob James (foto di Tom Copi)

Come spesso accade quando ci troviamo di fronte a musicisti di grande talento, anche per James le aperture dell’apprendistato giovanile trovano binari più precisi man mano che la professione cresce. 

Lui stesso, nella bella intervista rilasciata a Zev Feldman che si può leggere nel booklet del disco, ricorda non solo come la lunga collaborazione con la Vaughan (che terminerà solo alla fine del 1968) e la necessità di suonare ad altissimo livello un linguaggio più convenzionale lo abbia distolto dall’idea di diventare un “musicista d’avanguardia”, ma anche come il fervore esplorativo dei primi anni rispondesse prima di tutto a un desiderio di capire che direzione prendere, più che a un’adesione artistica precisa.

Salutiamo quindi con il piacere della scoperta d’archivio, nonché dell’ascolto di una musica interessante, questi inediti; senza troppi esoterismi né dietrologie, ma aggiungendo un altro tassello a una storia musicale che in quegli anni viveva momenti di fervente creatività.

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