Uno dei dischi più belli e profondi di questo strano 2020 lo ha appena pubblicato – per Die Schachtel, al solito con un artwork e una produzione eccellente – la chitarrista Alessandra Novaga. Artista felicemente impegnata in un continuo attraversamento di mondi che vanno dal repertorio classico contemporaneo all’improvvisazione e all’esplorazione delle traiettorie creative più inclassificabili, come accaduto nell’eccellente Fassbinder Wunderkammer del 2017, Alessandra Novaga trova per I Should Have Been a Gardener, questo il titolo del disco, ispirazione nel diario del regista Derek Jarman.
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Ne esce un lavoro di bellezza straniante, costruito sulla lentezza e l’evocazione, essenziale ma stratificato di possibilità, un disco che ascolto dopo ascolto svela mondi, incertezze, attese dolorose, costruzioni ineluttabili. Era l’occasione giusta per incontrare la musicista e farci raccontare questa avventura.
Inizierei la nostra chiacchierata da questo nuovo lavoro, I Should Have Been A Gardener. Dopo il bel progetto dedicato a Fassbinder, anche qui abbiamo una figura di regista, Derek Jarman, a ispirarti, in particolare con il suo diario. Cosa ti ha colpito di quelle pagine che definisci tra le più importanti che tu abbia mai letto?
«Se questa è solo la prima domanda, sappi che dovrò fare uno sforzo sovrumano per riuscire a contenermi nella lunghezza della risposta! Al diario di Jarman, Modern Nature, cui segue un secondo, Smiling in Slow Motion, sono arrivata perché sapevo che parlava molto del suo giardino di Prospect Cottage. Per chi non lo sapesse, Jarman acquistò un piccolo cottage di pescatori, a Dungeness, subito dopo aver scoperto di essere sieropositivo all’HIV. Dungeness è un posto incredibile, nel Kent, la sua casa è tra il mare e una centrale nucleare molto vicina, e il terreno è costituito solo da grigi ciottoli, niente terra. Altro fattore importante, le case non hanno recinzione. Sono stata lì, e sembra davvero di stare sulla luna o alla fine del mondo. Lui diceva: “i confini del mio giardino sono l’orizzonte”».
Sai che non conoscevo questo libro? Sembra davvero un testo pazzesco…
«Sì, un uomo incredibile Jarman, che ha deciso di condividere con gli altri il suo privato, la malattia, il giardino e anche i suoi diari che sono stati scritti con la consapevolezza che sarebbero stati pubblicati. Modern Nature infatti è uscito mentre lui era ancora vivo. L’ho riletto più volte e spesso, solo per conforto, lo apro a caso, trovando sempre qualcosa che mi ispira, mi commuove, mi diverte, mi tocca nel profondo, come niente di scritto ha mai fatto prima. Il giardino c’è, certo, ma c’è anche il coraggio di un uomo che sta per morire e che si sorprende a essere felice anche nei momenti più duri, un uomo che crea tra i ciottoli uno dei giardini più belli e sorprendenti del Novecento, e chi si occupa di piante sa che quello di cui si ha più bisogno per assistere ai risultati è il tempo, cosa che lui non aveva più. C’è il suo impegno politico, appassionato e arrabbiato per le pene che la cultura eterocentrica ha inflitto e continua a infliggere a chi etero non è. C’è il racconto del suo lavoro, il cinema, le sue opere d’arte, quadri e sculture, c’è l’amicizia, l’amore e il sesso, paradossalmente tanto più pulito quanto più descritto. E c’è una bellezza letteraria, stilistica, altrimenti tutto questo non arriverebbe a chi legge».
Facci qualche esempio a questo punto...
«Apro a caso e leggo passaggi come questi:
“I ciottoli sono imperlati di rugiada che luccica nella luce dell’alba. Una nebbiolina azzurro chiara bagna i salici, le allodole si sono alzate. È uno spettacolo di crochi dorati, una coccinella si bagna nella borragine azzurro pallido – l’amento del salice si apre – più tardi, quando la giornata si fa più fredda, torno a casa camminando attraverso i ciottoli, nella luce opalescente. Vermeer immerse il suo pennello in una solitudine iridescente come questa”.
E ancora: “Una telefonata idiota da parte di qualche rotocalco con una lunga serie di domande: Dove vorrebbe trovarsi o che cosa vorrebbe diventare? Poi ancora un silenzio benedetto – solo lo scricchiolio dei baccelli della ginestra che si aprivano al sole. Ne ho presi una manciata e li ho seminati attorno al palo del telegrafo”.
E “Una pianta di borragine azzurro cielo, un cespuglio autogerminatosi presso la porta sul retro, è in fiore. Si piega nel gelo del mattino, ma si riprende velocemente: ‘Io borragine porto coraggio’.”
Ecco, non so bene spiegare perchè, ma per me le sue parole, i suoi pensieri, sono come un balsamo sull’anima, e ti assicuro che è lo stesso per un mucchio di altra gente sparsa per il mondo».
La cura che Jarman aveva per il suo giardino è un elemento che certamente risuona anche con la tua di passione per il giardinaggio… In che modo questo tuo interesse per i giardini ha, se lo ha fatto, modificato il tuo approccio alla musica?
«Il giardino è contemplazione, silenzio, attesa, meraviglia. Da quando passo molto del mio tempo interessandomi all’idea di giardino, leggendo letteratura sull’argomento, o praticandolo manualmente, o viaggiando alla ricerca di giardini, qualcosa in me è cambiato. Di sicuro le mie mani passano meno tempo sulla chitarra e un pò di più nella terra!».
«Il giardino è contemplazione, silenzio, attesa, meraviglia. Da quando passo molto del mio tempo interessandomi all’idea di giardino, leggendo letteratura sull’argomento, o praticandolo manualmente, o viaggiando alla ricerca di giardini, qualcosa in me è cambiato. Di sicuro le mie mani passano meno tempo sulla chitarra e un pò di più nella terra!».
«Scherzi a parte, in questo lavoro penso abbia influito molto. Spesso risulta utile prendere in prestito il lessico della botanica, quando ad esempio parliamo di un’idea seminata, di un pensiero che è germogliato, perché la botanica ci parla della vita, da dove viene, come evolve e come finisce, senza le sovrastrutture e gli artifici aggiunti dal genere umano che, quando contempli un giardino, si mostrano spesso come eccedenze non necessarie. Ecco, è così che vorrei fosse la mia musica, senza eccedenze non necessarie. In questo disco in particolare ho cercato di pormi in ascolto anche mentre suonavo, più di quanto non abbia sempre fatto, intendo. L’ho già eseguito un paio di volte dal vivo, e ho cercato un approccio esecutivo del tutto nuovo per me. Qui la musica è molto lenta, con molto spazio tra un suono e un altro, con molta attesa. Mentre lo suonavo mi sono sentita lontana dall’essere performativa, avrei voluto quasi non esserci fisicamente, avrei voluto solo evocare. Nel primo brano è costante il rumore dei miei passi che si muovono sui ciottoli di Prospect Cottage, qua e là suono stralci dallo Stabat Mater di Vivaldi, ecco, mentre lo suono mi identifico molto di più con quella che cammina che con quella che suona, o almeno aspiro ad esserlo».
«Sono molto felice di aver trovato questo stato, ho scoperto qualcosa di nuovo, che mi riguarda, e che mi aiuta a proiettarmi in avanti nella speranza di non ripetermi. Per tornare al lessico del giardino, ma soprattutto per citare uno dei passaggi più amati da Modern Nature: “Il giardiniere scava in un altro tempo, senza passato né futuro, inizio o fine. Un tempo che non misura la giornata con le ore di punta, i pranzi lampo, l’ultimo autobus per tornare a casa. Camminando nel giardino si passa in questo tempo – l’attimo in cui si entra è indimenticabile. Il paesaggio intorno è trasfigurato. Qui è l’amen oltre la preghiera”».
Venendo agli aspetti più prettamente musicali, come hai lavorato ai pezzi che poi sono andati a comporre il disco? Nelle note scrivi che hai eliminato molte idee e certamente un filo conduttore è l’essenzialità, quasi nuda e dolorosa.
«Ho eliminato le eccedenze, appunto. Alla fine ho eliminato tutte quelle tracce che nascevano più da un ragionamento a tavolino, che volevano raccontare episodi, mentre ho lasciato solo quello che per me rappresentava l’essenziale. Il primo brano, nato di getto, è proprio quello che nel disco compare per ultimo, "I Should Have Been a Gardener"; è la reiterazione di una cellula che una sera di dicembre arrivò, così, e da cui ho capito che poteva svilupparsi qualcosa intorno. Io penso racconti una nostalgia, il vuoto che Jarman ha lasciato prima di tutto nelle persone che hanno vissuto vicino a lui, per questo ho pensato di aggiungere la sua voce, viva, fresca, gioiosa. Uno stralcio di intervista in cui di fatto parla di sé, della sua vocazione, anzi delle sue vocazioni».
In “April 21”, come dicevi, è evocato il tema dello Stabat Mater di Vivaldi e “Father Forgive Me” è una versione di “It’s A Sin” dei Pet Shop Boys, come hai affrontato due “fonti” così differenti?
«All’inizio mi dicevo: Ma no! Non puoi mettere una canzone dei Pet Shop Boys! Però più la ascoltavo e guardavo il video girato da Jarman, e più mi attraeva. Ne ho fatte almeno dieci versioni. Difficile uscire da quel ritmo, da quel pop. Una sera però sono uscite delle versioni scarne, dolenti, che per fortuna ho registrato. Quella che mi convinceva di più l’ho sbobinata, trascritta su carta segnando solo le note, senza valori musicali, posizionandole nello spazio più o meno lontane tra loro a seconda di quanta attesa ci fosse tra un suono e l’altro. Questo pezzo lo suonerò sempre leggendolo, non voglio impararlo a memoria, non voglio interiorizzarlo correndo il rischio magari di improvvisarci qualcosa che risulterebbe, appunto, un’eccedenza. Ovvio che ogni volta che lo suono è diverso, ma la diversità è data solo da come il suono si propaga in quel momento e da quanto io decida di far durare lo spazio vuoto tra due note».
«Questo brano non voglio impararlo a memoria, lo leggerò sempre durante i concerti perché, benché io sia seduta su una sedia con la chitarra tra le mani, in realtà, nella mia immaginazione, sto camminando intorno a Prospect Cottage».
«Ora scomodo due mostri sacri, almeno per me, e trasalisco io per prima se penso che li accosto al mio modo di eseguire un pezzo così, ma ho capito cosa intendevano Svjatoslav Richter e Carmelo Bene, in due ambiti diversi, quando teorizzavano che leggere la partitura, o la poesia, anziché impararla a memoria, ti permette di essere attraversato, di non interferire, di essere strumento suonato. Naturalmente lo spiegano molto meglio di me, ma, anche se si tratta di una canzone dei Pet Shop Boys, quello che qui conta per me, è cosa mi succede mentre lo suono, trascendendo dalla natura del brano musicale. Una cosa molto simile succede quando suono, o meglio evoco, lo Stabat Mater di Vivaldi che, frammentato, affiora dal suono dei miei passi sui ciottoli di Prospect Cottage. Anche questo brano non voglio impararlo a memoria, lo leggerò sempre durante i concerti perché, benché io sia seduta su una sedia con la chitarra tra le mani, in realtà, nella mia immaginazione, sto camminando intorno a Prospect Cottage. Il mio intento è quello di dilatare il più possibile l’attesa dei suoni, non voglio la preoccupazione di sapere cosa dovrò suonare, ma voglio abbandonarmi ai miei passi e ai segni sul pentagramma per lasciarmi sorprendere dalle note dello Stabat Mater come se le sentissi per la prima volta».
C’è anche il John Adams di The Wound Dresser. Non pensavo ci fosse grande affinità tra te e la musica di Adams, ma mi sbagliavo…
«A volte in Modern Nature Jarman cita la musica che ascolta, e così parla di The Wound Dresser di Adams, dicendo che lo sente mentre fa giardinaggio, e che lo commuove molto. Si tratta di un brano per baritono e orchestra, e il testo è una lirica di Walt Whitman. Le parole sono in effetti molto tristi perché raccontano di quando il poeta faceva l’infermiere negli ospedali da campo durante la guerra civile, e vedeva soffrire e morire molti giovani. Ricordiamoci che tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta la comunità gay è stata letteralmente sterminata dall’AIDS, che Jarman riceveva quasi ogni giorno telefonate che gli comunicavano la morte di un amico, ed era ben conscio che di lì a poco sarebbe successo anche a lui. Non conoscevo il brano, e ho iniziato ad ascoltarlo ossessivamente. È di una bellezza straziante e, anche se non sono una grande conoscitrice del repertorio di Adams, mi sembra piuttosto diverso dal resto della sua musica».
«Lo ascoltavo ogni giorno nei miei tragitti in auto, e ho iniziato ad adorare alcune linee melodiche che affioravano qua e là nell’orchestra. Pensavo fosse impossibile trascriverlo per chitarra ma ho comprato la partitura e qualcosa è successo. Certo i piani sono stravolti, la voce del baritono quasi non c’è e ovviamente riesco a fare un terzo delle cose che sono scritte, ma mi sono divertita molto a ri-comporlo. Inoltre, e queste sono le non coincidenze che amo, anni fa avevo letto un'autobiografia di Adams, e così ho cercato qualche riferimento al brano in questione, e con grande stupore ho scoperto che quando leggeva quella poesia di Whitman, in realtà Adams pensava alla tragedia che la comunità gay stava vivendo in quegli anni. Voilà, tutto tornava».
Durante il lockdown come te la sei cavata? Ti venivano idee, ispirazioni, o no?
«Diciamo che ho retto bene la clausura dato che il mio appartamento, seppur piccolo, è, diciamo così, polimorfo. Può essere studio, cinema, biblioteca, bar, e anche palestra! Certo sono stata tra quelli fortunati che non hanno subito perdite di nessun tipo e, cosa fondamentale, non ero sola. Ho cercato di mantenere una routine quotidiana, mi svegliavo presto, mangiavo bene, insegnavo, ho studiato nuove opere di Bach, leggevo e guardavo film tutte le sere. Proprio in quei giorni, Die Schachtel mi ha comunicato che avrebbero pubblicato il disco, quindi è partita una fitta corrispondenza con Bruno Stucchi e Howard Sooley per la grafica e le foto, e questo mi ha fatto sentire comunque attiva, anche in assenza di concerti. Ma ispirazione niente, ho usato tutte le energie per mantenermi in equilibrio e non me ne sono rimaste per nient’altro».
In questi anni hai lavorato molto con il teatro. Come cambia il tuo approccio quando componi per un contesto performativo e quanto questo ti ha fatto riflettere sulla performatività del tuo stare su un palco quando sei in un concerto solista?
«Quando compongo per il teatro la musica è totalmente al servizio dello spettacolo. Non sarei in grado di comporre a casa qualcosa che deve funzionare per una scena, compongo quasi sempre durante le prove, sul palco. Se non è prevista la mia presenza durante le repliche, le registrazioni sono fatte comunque durante le prove perché ho bisogno di suonare insieme agli attori, di accompagnarli nell’azione. Penso che il lavoro sul palco abbia acuito la mia percezione dello "stare in scena", gli attori e i registi con cui ho lavorato mi hanno aiutato a capire come gestire la mia fisicità. Tieni presente però che io ho un passato in ambito classico dove una certa forma e una certa ritualità sono ancora molto presenti. Diciamo che ero già un pò addestrata. Però se penso ai miei ultimi due lavori, quello su Fassbinder e quello su Jarman, dopo aver osservato molto da vicino qualcuno che costruisce uno spettacolo nel senso che lo scrive anche, e penso soprattutto a Elena Russo Arman che è la regista con cui lavoro più spesso, credo di aver imparato a immergermi completamente leggendo, studiando, approfondendo ciò su cui sto lavorando, prima di produrre un qualche risultato, ecco, penso che questo sia un debito molto grande col teatro».
Cosa sta ascoltando Alessandra Novaga in queste settimane?
«Bach, sempre, in questi giorni in particolare i concerti per pianoforte e orchestra suonati da Glenn Gould. Poi l’ultimo disco di Loren Connors, Beautiful Dreamer, Landscape with Tears di Manuel Zurria e ho il privilegio di ascoltare in anteprima dei pezzi di un musicista che amo molto e con cui ho la fortuna di collaborare, Stefano Pilia, che diventeranno il suo prossimo bellissimo disco».
Dopo Fassbinder e Jarman, ci sarà qualche altro o altra filmmaker che finirà sotto le tue dita? A cosa stai lavorando?
«E chi lo sa! Ogni volta che chiudo un disco penso sempre che non riuscirò a farne un altro, che non avrò più un’ispirazione così forte. Al momento non sto lavorando a niente di nuovo, continuo a studiare soprattutto musiche dal repertorio classico, Bach in primis. Però dopo l’estate uscirà un lavoro a cui tengo molto, in duo con Stefano Pilia, con un’etichetta greca, la Coherent States».