Lea Bertucci, il suono e lo spazio

Un'intervista alla compositrice e sound designer newyorkese Lea Bertucci

Lea Bertucci
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Tra i dischi usciti durante queste settimane di lockdown, uno dei più affascinanti è certamente Acoustic Shadows (SA Recordings), vinile e archivio di sample della compositrice e sound designer newyorkese Lea Bertucci. Artista che in questi ultimi anni si è conquistata una meritata attenzione internazionale sia come sassofonista che come autrice di progetti che interrogano i rapporti tra il suono e gli spazi architettonici, Lea Bertucci raccoglie nel nuovo disco musica per ottoni e per percussioni registrata originariamente per un progetto site-specific in Germania, una prova convincente e di grande fascino. 

Ci è sembrata l’occasione per conoscere meglio questa musicista.

Lea Bertucci (foto di Alex Phillipe Cohen)
Lea Bertucci (foto di Alex Phillipe Cohen)

Vorrei incominciare la nostra conversazione dal disco appena uscito, Acoustic Shadows. La musica proviene da una serie di performance site-specific e da un’installazione sonora dentro le cavità del Deutzer Bridge di Colonia nel 2018. Come hai lavorato a questo progetto?

«Il progetto è iniziato con un sopralluogo qualche mese prima del Festival dei Ponti, che per 25 anni ha presentato lavori di sound artists in questo posto. Ero interessata a scrivere della musica che rispondesse sia alle condizioni acustiche estreme che ci sono all’interno del ponte, sia al suono diegetico del luogo, come quello del tram che passa sopra, da un lato all’altro del ponte».

«Ero interessata a scrivere della musica che rispondesse sia alle condizioni acustiche estreme che ci sono all’interno del ponte, sia al suono diegetico del luogo, come quello del tram che passa sopra, da un lato all’altro del ponte».

«Questo movimento laterale di suoni esistenti mi ha ispirato l'approccio alla spazializzazione, sia per quanto riguarda gli strumenti che per l’impianto di diffusione. Posizionando le fonti sonore in differenti parti del ponte sono riuscita a creare una musica che conversasse con il ponte e il tram».

Come hai pensato il ruolo degli strumenti in particolare?

«I gesti musicali degli strumenti sono stati disegnati in modo che si potessero avvantaggiare dell’estrema risonanza del ponte e giocare con i fenomeni psicoacustici che si trovano all’interno. Analizzando acusticamente lo spazio, ho individuato la frequenza risonante del ponte, che è stata presa come riferimento armonico del pezzo per ottoni; l’idea era di creare delle risonanze “per simpatia” tra la musica e il ponte stesso».

Lo scorso novembre hai collaborato con i creatori dell’archivio di sample di Spitfire Audio e avete registrato con gli ottoni e le percussioni in un enorme cella frigorifera industriale. Nel video di presentazione presente su YouTube si intuisce chiaramente le affascinanti – e piuttosto gelide  condizioni in cui tu e gli strumentisti avete lavorato, ma come sono collegate queste registrazioni con il progetto originale?

«Per l’archivio di sample che è stato realizzato insieme al disco ho riassunto le regole della musica, la strumentazione e il tipo di tecniche non convenzionali di Acoustic Shadows in un archivio di campionamenti che esplora l’idea del “meta-strumento”, della combinazione tra lo strumento e l’acustica dello spazio. Lo spazio è considerato un’estensione dello strumento musicale. E… sì, la cella frigorifera in un novembre londinese è stata un ambiente di registrazione piuttosto estremo!»

Nella tua biografia scrivi che il tuo lavoro descrive le relazioni tra i fenomeni acustici e la risonanza biologica. Ricordi quando è iniziato il tuo interesse per le reazioni dell’ambiente? 

«Quando ero bambina, ricordo di essere rimasta molto colpita da come il mio strumento suonasse in modo differente a seconda della stanza in cui mi trovavo. Una volta stavo suonando in un ex miniera di cemento nella mia città natale e ricordo nettamente la sensazione di poter davvero sentire me stessa per la prima volta. Quando ho iniziato poi a frequentare il mondo della musica sperimentale, quando ho scoperto la microtonalità e la psicoacustica, mi sono resa conto delle potenzialità del suono come facilitatore di reazioni sia emozionali che corporee e mi sono interessata a trovare del modi per imbrigliare entrambe queste reazioni attraverso un approccio sperimentale all’armonia».

Nel tuo disco precedente, Resonant Field, hai suonato il sassofono all’interno del Marine A Grain Elevator di Silo City, a Buffalo. Come sei arrivata in questo spazio postindustriale pazzesco (anche Sarah Hennies ha registrato lì recentemente) e come hai lavorato al disco?

«Nell’estate del 2017 ho lavorato in una residenza artistica a Silo City che mi ha permesso di accedere a questo spazio. La mia idea era quella di scrivere un quartetto per sassofoni, cosa che ho fatto, ma mentre lavoravo a quel pezzo ho iniziato a registrare me stessa in soli improvvisati o, se vogliamo, in duo con il calcestruzzo dei silos. Riascoltando quelle registrazioni le ho trovate convincenti, così ho strutturato degli altri materiali in studio attorno a esse e… ecco come è nato Resonant Field».

In che modo pensi che il disco possa restituire l’esperienza del tuo lavoro negli spazi?

«Non penso proprio possa farlo. Una normale registrazione stereo non può riprodurre l’esperienza di un lavoro site-specific, in cui la spazializzazione del suono è così fondamentale. La registrazione stereo comprime la terza dimensione a favore della quarta e così ho affrontato il processo di editing di Acoustic Shadows come disco. Entrambi i lavori originali duravano oltre 45 minuti ciascuno, il che ha comportato un sacco di tagli e montaggio per modellare un pezzo sostanzialmente nuovo che potesse reggere da solo, completamente decontestualizzato dallo spazio per cui era stato pensato».

Il sassofono è il tuo strumento principale. Quali sono le esperienze di esplorazione del sax che ti hanno ispirato maggiormente? 

«I sassofonisti che amo di più suonano in realtà in modo molto differente rispetto al mio approccio, ho sempre amato Eric Dolphy, Albert Ayler, John Coltrane, Pharoah Sanders, Rahsaan Roland Kirk… recentemente però ho scoperto Dickie Landry,  che ha fatto alcuni lavori più minimalisti che hanno uno spirito che sento vicino alla mia musica».

Un altro progetto che mi sembra davvero interessante è quello con la cantante Amirtha Kidambi, come avete lavorato a questo duo?

«Da un tipo che svuotava una cantina ho comprato questo fantastico registratore a bobina e mi sono accorta che con questo potevo creare effetti molto interessanti su una voce dal vivo. Nello stesso periodo Amirtha mi aveva proposto di fare qualche seduta di improvvisazione e ho suggerito di usare questo setup. Siamo abbastanza sorprese da come un impianto in fondo semplice riesca a curvare e torcere la sua voce in effetti così intriganti».

Nel tuo sito è ancora ben visibile la fitta lista di concerti previsti per il tuo tour primaverile 2020. Sei riuscita a farne qualcuno?  E cosa hai fatto durante il lockdown?

«Ero in Portogallo quando la situazione in Europa si è fatta davvero seria… Sono riuscita a suonare in solo 4 delle 22 date previste. Come molti altri artisti performativi, temo di non potermi più esibire dal vivo per il resto dell’anno. Ora sono a New York e in queste settimane sto lavorando sul suono del mio respiro attraverso un flauto di legno come meditazione sugli stati d’ansia e ad alcuni pezzi più brevi e duri per nastro e elettronica».

Credi che questa situazione ti ispirerà nuove idee proprio in relazione al suono e allo spazio, anche magari in una prospettiva di connessione con le tematiche ambientali che sono sempre più urgenti?

«Sarebbe impossibile per il mio lavoro non riflettere il mondo che mi circonda e il modo in cui io ne faccio esperienza. Al di là dell’aspetto site-specific, gran parte dell’attività di ricerca che svolgo sui processi biogeochimici e i fenomeni naturali permettono al mio lavoro di considerare il corpo in relazione all’ambiente che lo circonda, come momento di riflessione sulla natura e l’esperienza umana».

Recentemente hai compilato una fantastica playlist per la serie "Space is the Place" di Ransom Note, spaziando da Maja Ratkje a Messiaen, ma in queste settimane cosa stai ascoltando?

«Direi preferibilmente musica precedente al 1200 o posteriore al 1900».

La classica domanda finale: i tuoi prossimi progetti?

«Sopravvivere».

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