Spesso le vicende dei jazzisti sono state segnate dal disagio personale e sociale, un disagio che trovava per alcuni una risposta – spesso enfatizzata nelle mitologie del settore – nell’uso di droga, di alcol, di farmaci.
Ma che a una azienda farmaceutica venisse in mente di usare un disco blues e jazz per la promozione di uno psicofarmaco suonerebbe un po’ strano, no? Eppure è successo.
Ma che a una azienda farmaceutica venisse in mente di usare un disco blues e jazz per la promozione di uno psicofarmaco suonerebbe un po’ strano, no? Eppure è successo.
Stati Uniti d’America, siamo nel 1966 e da qualche anno circa la “depressione” non è più solo un termine legato alla crisi economica e finanziaria successiva al crollo di Wall Street del 1929, bensì una vera e propria miniera d’oro per le case farmaceutiche.
Uno dei primi farmaci per curarla è della Merck Sharp & Dohme: si chiama amitriptilina, conosciuta con il nome commerciale di Elavil e nel 1966 l’idea è quella di promuovere l’Elavil presso i medici allegandolo a un disco omaggio: Symposium in Blues.
Lo produce la RCA Victor, assemblando pezzi blues e jazz dal proprio catalogo: si va dal Leroy Carr di “Rocks In My Bed” (“ho delle pietre nel letto e non riesco più a dormire”) alla Ethel Waters di “Blues In My Heart”, passando per Leadbelly, Lonnie Johnson, ma c’è spazio anche per il Louis Armstrong di “Blues for Yesterday”, l’Artie Shaw di “Blues In The Night” e Duke Ellington con il blues della “Black, Brown And Beige” suite.
Si può immaginare che l’idea pubblicitaria fosse quella di fare associare la malinconia del blues alla condizione che l’Elavil avrebbe brillantemente risolto, un modo – avranno pensato alla Merck – raffinato e vagamente elusivo, anche perché in fondo è una bella raccolta che avrà comunque fatto piacere a molti senza causare loro troppi turbamenti emotivi.
C’è qualcosa di un po’ sinistro, però, in tutto questo: in copertina, su sfondo rigorosamente blu, c’è la foto di una donna bionda, con il viso appoggiato al braccio e lo sguardo sognante. La foto è interessante: non solo perché non si capisce bene l’età della donna (è giovane, ma non così giovane da essere spensieratamente lontana dalla minaccia della depressione), ma anche perché il suo sorriso resta ambiguo, come immobilizzato in uno stato che non si sa se sia di quiete (grazie all’Elavil, ovviamente), di ovattato abuso farmacologico o di semplice piacere all’ascolto del disco.
Ancora più sinistra è in fondo però proprio la scelta di blues e jazz, linguaggi musicali tipicamente afroamericani, cioè legati a una parte della popolazione in cui l’aspetto del disagio psichico e sociale non era certo irrilevante. E chissà magari quanti musicisti hanno abusato di questo psicofarmaco…
La vicenda è ovviamente una curiosità a piè di pagina delle storie del jazz e della farmacologia: il disco – evidentemente distribuito massicciamente – si trova anche oggi per una manciata di dollari, anche meno, su Discogs e dubitiamo che i medici che l’hanno ricevuto lo abbiano ritenuto qualcosa di più di un piacevole dono promozionale, ma un velo di inquietudine rimane posato su chi si ricorda questa vicenda, un po’ come resta sugli occhi della donna che ci guarda dalla copertina di Symposium in Blues.