Fiona Apple: Capolavoro? Anche no…
Perché il nuovo album di Fiona Apple, Fetch the Bolt Cutters, ha stregato la critica musicale
Perdonate il ritardo: colpa mia. In genere scelgo i dischi dei quali scrivere basandomi su un paio di ascolti: se mi colpiscono – anche negativamente – approfondisco, altrimenti passo oltre. E così è stato, due settimane fa, con Fetch the Bolt Cutters: quinto lavoro della cantautrice statunitense Fiona Apple.
Dopo di che, spulciando le cronache musicali, ho constatato l’unanime trionfalismo delle recensioni. John Pareles sul “New York Times”: «Questo disco mi lascia senza parole». E “The Guardian”: «Una magnifica eruzione». Sempre con il massimo dei voti, incluso “Pitchfork”, che non esprimeva una valutazione simile dal 2010 (Kanye West, My Beautiful Dark Twisted Fantasy): «Un capolavoro intransigente», la motivazione.
Allora mi sono domandato perché e adesso cerco di spiegarlo. C’entra il tempismo, anzitutto: si tratta di un’opera infusa dallo zeitgeist, infatti. Persino accidentalmente: non era premeditato che fosse pubblicata in piena quarantena, ma è stata concepita e registrata da Fiona Apple – proverbialmente refrattaria alla mondanità, latitante dal vivo e assente in termini discografici dal 2012 – in una situazione analoga, uscendo pochissimo di casa per dedicarvisi, affiancata dagli strumentisti selezionati per affrontare l’impresa. La vaga sensazione di claustrofobia che si prova ascoltando il disco deriva da ciò e si allinea alla condizione in cui ci troviamo nostro malgrado.
È viceversa intenzionale la pertinenza “politica” con l’era post #MeToo: il pubblico femminile vi si riconoscerà e ne andrà fiero. Il titolo, per dire, allude a una battuta pronunciata dall’attrice Gillian Anderson, detective che si occupa di violenza sulle donne nella serie televisiva della BBC The Fall: «Vai a prendere le tronchesi», necessarie per forzare la porta di una stanza dov’era stata abusata una ragazza. Fiona Apple è inoltre una donna di successo niente affatto addomesticata dal potere maschile che tuttora governa le sorti della musica pop: inopinatamente diva quando ancora non era maggiorenne grazie a “Criminal”, canzone riportata all’attualità dalla scena in cui Jennifer Lopez fa pole dancing in Hustlers e all’epoca insignita di un Grammy Award da lei incassato durante la cerimonia ufficiale con un discorso al vetriolo, aperto in maniera inequivocabile («Questo è un mondo di cazzate»).
Atto iniziale di un’avventura artistica segnata da un’altalena comportamentale zeppa di ghiotti aneddoti da gossip: love story tempestose, incidenti di percorso (tipo la notte passata in un carcere del Texas nel 2012 per possesso di hashish), stramberie assortite (l’intestazione chilometrica del secondo album, lunga 89 parole e pertanto degna del Guinness dei Primati) e imbizzarrimenti vari (dal palco del Roseland Ballroom di New York abbandonato a metà concerto nel 2000 al tour dell’America Latina annullato nel 2012 per la malattia del suo cane: in Fetch the Bolt Cutters ce ne sono cinque che abbaiano, puntualmente citati nelle note di copertina). Effetti collaterali di una personalità tormentata: per sua stessa ammissione Fiona Apple soffre di disturbo ossessivo-compulsivo, curato medicalmente con gli psicofarmaci e off-the-record con dosi cospicue di alcol. Una condizione immortalata qui in un verso eloquente di “Heavy Balloon”: “Il fondo comincia a sembrare l’unico luogo sicuro che conosci”.
Causa prima dei suoi guai, lo stress post traumatico seguito allo stupro subito a 12 anni. Nella circostanza, parla dell’argomento in “For Her”, pur non riferendosi alla propria esperienza: “Mi hai stuprata nello stesso letto su cui è nata tua figlia”.
Ovvio che i maschi non facciano gran figura: “Prendimi pure a calci sotto il tavolo quanto vuoi, non starò zitta”, canta in “Under the Table”.
Eppure si sottrae alla spirale dell’odio: “So che se ti detesto perché tu mi detesti, entrerò in una sfida senza fine”, afferma in “Relay”.
E anzi, apre la sequenza con una ballata a cuore aperto – l’episodio più solare della raccolta – intitolandola “I Want You to Love Me”: “Finché sono in questo corpo, voglio qualcuno da desiderare”.
È una donna ammirevole, insomma, Fiona Apple: a 42 anni compiuti non teme di esporsi, ostentando insieme forza e vulnerabilità, né nasconde quali siano le fonti cui si ispira (ad esempio Kate Bush, citata in controluce nel brano che dà nome al disco: “Sono cresciuta dentro le scarpe che mi era stato detto potevo calzare, scarpe che non erano fatte per salire di corsa quella collina, e di salire quella collina di corsa ho bisogno, e lo farò”).
Sul piano musicale si può ben dire che sia dunque il suo lavoro più audace: fondato sulla dialettica fra voce e percussioni, un po’ come certe cose di Tom Waits, formalmente selvatico – una rocambolesca combinazione di jazz, R&B, avant-garde, blues e altro ancora – e addirittura sovraccarico a livello emotivo.
Non si può non apprezzare la libertà che si è concessa la Apple in questa occasione, ma ciò rende davvero Fetch the Bolt Cutters il capolavoro che tutti dicono sia? L’album candidato già ora al rango di migliore dell’anno? Con il dovuto rispetto, francamente no.