Husband e Reuter, un atto di resilienza sonora
Music of our Times è stato completamente improvvisato da Gary Husband e Markus Reuter in uno studio in Giappone, poco prima del lockdown
Si è abusato, in questi tempi un po’ amari, un po’ trasognati, del termine resilienza. Una parola che fino a qualche tempo fa era considerata poco più che un incomprensibile tentativo di spiegare l’inspiegabile, cioè il fatto che da una situazione negativa possano germinare inattese energie che sortiscono effetti positivi. Per evitare l’abuso, o meglio, per convertire l’abuso nella sua essenzialità scultorea, dove è dato verificare l’assunto non sul sentito dire o sul vezzo di ripetere una formuletta magico incantatoria, suggeriamo l’ascolto di questo disco di Gary Husband e Markus Reuter. Il primo atto di resilienza sonora prodotto ai temi del Covid 19, e non è un modo di dire.
Sappiamo tutti che i musicisti non si fermano mai, neppure tra quattro mura, e anche che lanciare messaggi sonori in bottiglia dal proprio salotto è spesso meglio che coltivare il silenzio tombale. Sappiamo altrettanto bene che la mancanza di palcoscenici può innescare vacue ipertrofie del proprio ego, chiamato a rappresentare se stesso nel silenzio obbligato degli altri. Da qui la miriade di “canzoni dalle camerette” che nulla aggiungono, ma molto sottraggono alla dignità musicale.
Ecco allora un bel disco che invece ci sta proprio tutto, nella categoria della “resilienza”. Non è un contenitore ottimistico che sproloquia di quanto saranno belle e progressive le nostre sorti quando non ci saranno più mascherine e gel igienizzanti, anzi, le parole non ci sono proprio. Non contiene inni stentorei né progressioni armoniche trionfali che alla fine ti facciano venir voglia di spalancare la finestra e gridare che “tutto andrà bene”, quando a molte migliaia di persone è andata malissimo. E un atto vero di resilienza, è la “musica dei nostri tempi”, e andiamo a raccontarlo.
Markus Reuter, gran signore delle corde tedesco e cresciuto alla corte di sua maestà il Re Cremisi Robert Fripp aveva in programma un tour assieme agli altri Stick Men (Tony Levin, Pat Mastellotto) in Cina e in Giappone. In alcune date sul palco ci sarebbe dovuto essere anche Gary Husband, uno dei musicisti più inclassificabili e interessanti sulle scene dell’ultimo trentennio, diabolicamente abile nel maneggiare categorie diverse di strumenti, ma con spiccata predilezione per tastiere e set percussivi. È andata come nessuno avrebbe previsto sarebbe andata: rientro in patria immediato.
Leonardo Pavkovic, patron, mente e infaticabile organizzatore della MoonJune Records è riuscito a prenotare uno studio di incisione a Tokyo per qualche ora prima del volo di ritorno.
Lì si sono trovati Gary Husband, che aveva a disposizione un Fazioli Grand Piano, e Markus Reuter con le sue futuristiche touch guitars e il laptop per mutare in tempo reale ogni suono possibile. Via poi, senza rete, in improvvisazione totale: dagli iniziali, fluttuanti dieci minuti di "Colour of Sorrow" a una serie di episodi più brevi, in un’atmosfera di stranita meraviglia, quasi che i due musicisti intuissero di trovarsi se non alla fine del mondo, alla fine di uno dei mondi possibili con i suoi tempi cogenti, ritmati da “schedule” parossistiche.
Invece qui sciamano corti di note lunghe, risonanti, le chitarre sembrano avvolgere i colpi radi dei martelletti sulle corde in uno sciame vischioso e davvero affascinante di altri suoni, alonati. Insomma la resilienza sonora ai tempi del Covid 19 ha le stimmate di un “soundscape” gentile, desolato, in più punti attonito. E quando entra "White Horses", il brano che ricorda un comune amico che per tutta la sua breve vita ha costruito paesaggi sonori, Allan Holdsworth, è difficile non rivolgergli un pensiero.