L’affascinante Myopia di Agnes Obel
Un aristocratico esercizio di pop neoclassico per Agnes Obel, fra Debussy e Kate Bush
È anche una questione di etichetta: il nuovo lavoro della trentanovenne artista danese Agnes Obel esce con impresso il marchio Deutsche Grammophon, concesso raramente a esponenti estranei al circuito accademico. La casa discografica tedesca l’ha scritturata nel 2018 – perché «con ogni canzone o brano strumentale apre piccoli universi, raggiungendo in questo modo un pubblico più vasto con creazioni sofisticate», ha dichiarato il presidente dell’azienda Clemens Trautmann – e si avvale dell’altrettanto influente Blue Note per diffonderne la produzione oltreoceano.
Un considerevole salto di qualità per Agnes Obel, capace di affermarsi nell’arco di un decennio confezionando materiale apprezzato in particolare nel Nord Europa (Belgio e Olanda, insieme al paese natale, i luoghi nei quali riscuote maggiore successo) e sovente esportato in televisione e al cinema. Ciò nonostante il suo linguaggio sia piuttosto aristocratico: influenzata da autori classici (Debussy, Ravel e Satie) e figure solo tangenzialmente riconducibili al pop (Scott Walker e Joni Mitchell), architetta musica dall’umore introspettivo e crepuscolare. Non fa eccezione il quarto atto del suo curriculum professionale.
Intitolata in chiave metaforica alla “miopia” («Volevo restituire la sensazione di essere intrappolati in uno stato d’animo con poca visione periferica, quando ciò che rimane visibile diventa sempre più vivido»), l’opera perfeziona la formula plasmata da Agnes Obel nei tre dischi precedenti: enfasi su pianoforte e voce, quest’ultima moltiplicata artificialmente e nell’occasione persino rimodellata elettronicamente, con un sobrio corredo d’archi a rifinire il quadro.
Concepito a Berlino, dove la Obel risiede dal 2006, nella consueta condizione d’isolamento dalle influenze esterne («Costruisco una specie di bolla in cui esiste l’album e nient’altro»), esplora la zona d’ombra tra «la fiducia e il dubbio», ha spiegato l’interessata. L’effetto è suggestivo già dall’iniziale “Camera’s Rolling”, ballata d’ambiente cameristico con trama di accordi in stile Nyman, intonazione cristallina e afflato esistenzialista: “Che cosa farai che non potrai disfare?”, domanda a un certo punto.
A tratti sembra di ascoltare Kate Bush nella versione più intimista, ad esempio nell’episodio che dà titolo alla raccolta, o in “Broken Sleep”, ispirato dai disturbi del sonno che l’hanno afflitta, raffigurati in fogge inquietanti: “Forme di fumo, fin troppo umane, crescono come titani (…) Mare d’alberi che invocano esseri umani, pendenti come foglie dai salici”.
Completa il trittico d’apertura “Island of Doom”, che avviluppa in atmosfera appropriatamente spettrale il turbamento per la scomparsa del padre (“Pulisci la stanza e seppellisci il corpo”) e l’impermanenza degli affetti in senso lato.
Seguono altre sette composizioni, tre delle quali senza parole (affascinante la sincopata “Drosera”, in onore della pianta carnivora dalle proprietà medicamentose), che portano Myopia a sfiorare appena la soglia dei 40 minuti. Un disco essenziale eppure denso di argomenti.