Médée al femminile
Berlino: successo per Cherubini con la Yoncheva e la direzione di Oksana Lyniv
Torna in scena dopo due anni l’allestimento della Médée di Cherubini alla Staatsoper, con qualche rotazione nel cast, ma la Yoncheva sempre mattatrice nel ruolo del titolo. La regia di Andrea Breth – che sfoltisce la parte parlata del libretto dell’originaria opéra-comique – legge il mito attualizzandolo in una stigmatizzazione del maschilismo del potere: non solo Medea, ma pure Dirce è una pedina dei voleri di padre e promesso sposo, tanto da mostrarsi all’inizio recalcitrante e obbligata ben oltre i suoi presagi di sventura; Medea, poi, ottiene dai due uomini le fatali concessioni facendo leva su un’esplicita seduzione sessuale e in più, nel caso di Giasone, rinfocolandogli ‘a colpo sicuro’ le antiche passioni. Le azioni si compiono in una sorta di deposito-smercio con una grande saracinesca (il vello è appena stato scaricato da un cassone ligneo), un ‘non luogo’ di passaggio grigio e neutro, che il palco rotante mostra in diverse posizioni e prospettive: la soluzione rende lo spazio dinamico non solo per il movimento della scenografia, ma anche per la varia angolazione di quinte e fondali, per le possibili aperture della saracinesca e le comunicazioni tra gli spazi parziali, per la modulabile profondità del palcoscenico agibile e agito: lo spazio sembra dunque ‘lavorare’ quasi come una categoria autonoma e ‘assoluta’ del linguaggio registico, da cui la Breth e lo scenografo Zehetgruber tirano fuori nondimeno effetti tanto suggestivi (le ombre sulle pareti) quanto semantizzabili, e in ogni caso iscritti nelle virtualità testo (le azioni dell’imeneo processionale alla fine del secondo atto, con Medea a campeggiare sul fronte con la sua maledizione; l’incendio del terzo atto). Quel che di labirintico e di vincolato impone lo spazio, tuttavia, maschera qualche dettaglio importante – nella chiave di lettura della regia – che le foto di scena invece hanno rivelato (Giasone che già amoreggia con una delle ancelle della futura sposa; Dirce trattata come icona cui si offrono pegni sia di fede sia di ludibrio) oppure forza a un canto dietro le quinte il coro, quando sarebbe necessaria la sua presenza in scena. Assai efficace e toccante, invece, la realizzazione elettroacustica del monologo parlato di Medea coi figli nel terzo atto (con amplificazione e separazione timbrica tra le parole di madre e vendicatrice); e, dopotutto, straniante non fuori misura l’infanticidio avvenuto già durante l’inizio del terzo atto: la dissociazione tra parole e atti disperati di Giasone nel finale regge bene la costellazione dei segni teatrali.
Tra gli interpreti, superlative le tre femminili: Sonya Yoncheva conferisce un rilievo interpretativo al ruolo eponimo talmente forte e scolpito, che qualche affaticamento sugli acuti non pesa in alcun modo, e non le impedisce di ottenere una giustificata ovazione; applauditissima, meritoriamente, la Neris di Marina Prudenskaya, che plasma – nella stupenda scena solistica d’inizio second’atto – un fraseggio e un ductus vocale di notevole profondità espressiva, insieme misurato e dispiegato, continuo eppure graduato nei suoi tratti ‘patetici’; nella solidissima direzione di Oksana Lyniv. c’è tutto quello che ci dev’essere in un’ottima musicista: chiarezza e duttilità del gesto, energia e fraseggio, flusso e cesure, insomma una plasticità di condotta e uno straordinario assortimento di colori che la Staatskapelle Berlin restituisce, nonostante l’acustica della sala di Unter den Linden si confermi non generosa con gli archi. Assai bene anche gli altri ruoli principali (Slávka Zámečníková, Francesco Demuro, Iain Paterson), più negli assiemi che nei pezzi solistici, ma le esigenze della regia (ad es. nel già evidenziato ‘carattere’ del personaggio di Dirce) possono aver favorito la loro resa nei concertati più che nelle ‘arie’.
Sala non pienissima, ma lungamente ed entusiasticamente plaudente alla fine.
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