Szifron porta al cinema “Samson et Dalila”
Alla Staatsoper di Berlino successo per l’opera di Saint-Saëns con qualche contestazione alla regia
È come girare un film ma senza cinepresa. Damián Szifron non ha mai diretto un’opera. Però ha fatto un film cattivo e divertente, Relatos salvajes (Storie pazzesche nella versione italiana) che ha avuto un successo planetario e si è pure guadagnato un Oscar. A Daniel Barenboim quel film è piaciuto e per questo ha deciso di affidargli nella sua Staatsoper un’opera kolossal come il Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns, amatissima dal pubblico tedesco alla prima assoluta di Weimar del 1877 (quando invece in patria fu accolta freddamente) ma diventata oggi oggetto raro in terra tedesca, nonostante quella love story sullo sfondo di una guerra senza quartiere fra due popoli si presti a fin troppo ovvie attualizzazioni.
È come girare un film ma senza cinepresa, dunque. E Szifron sceglie proprio i modi del cinema, ma del cinema di una volta, cioè di quello della Hollywood che amava le storie bibliche in costume e che nel 1949 dette al forzuto ebreo e all’infida sacerdotessa filistea i volti di Victor Mature e Hedy Lamarr e mise dietro la cinepresa uno che ci sapeva fare con i kolossal in costume come Cecil B. DeMille. È fin troppo ovvio dire il teatro non è il cinema, se non altro perché il montaggio lo decidono a monte compositore e librettista. È altrettanto ovvio che non basta il trionfo di cartapesta anche se allestito con gran gusto cine-archeologico da Étienne Pluss – un paesaggio di rocce desertiche con un cielo fin troppo cangiante per la prima parte e per la seconda un monumentale tempio di Dagon, sfondo del celebre baccanale che qui è festa iniziatica con profluvio di sacrifici umani (non crolla il tempio intero ma Samson scardina comunque due pilastri) – e il tripudio di fantasiosi costumi in tema mediorientale di Gesine Völlm. Lo spettacolo arranca, manca di tensione drammatica, e a rivitalizzarlo non sono quelle poche gratuite trovate come i doppi danzanti che mimano l’amore fra i due protagonisti con tanto di prole a sorpresa o lo stupro di Samson su una peraltro compiacente Dalila o, meno ancora, la Dalila che ammazza il gran sacerdote nel sottofinale. Insomma, quel che manca nella prima regia lirica firmata da Szifron è il colpo d’ala o anche solo l’idea buona che non lasci l’impressione di aver assistito a un iper-tradizionale trionfo del kitsch come ormai si vede solo negli spettacoli areniani.
Se sulla scena il dramma latita, non aiuta molto nemmeno la buca. Daniel Barenboim fa un eccellente lavoro sul suono – levigatissimo e bello da togliere il fiato in molti passaggi – della sua Staatskapelle di Berlino ma sembra decisamente preferire la dimensione oratoriale del lavoro di Saint- Saëns come fanno intuire i tempi lenti, quasi solenni, che diluiscono l’impatto drammatico dei primi due atti, nella fattispecie la battaglia fra gli ebrei e palestinesi ma anche il duettone della seduzione di Dalila e Samson, nel quale il potenziale seduttivo è interamente nel suono orchestrale. Il registro cambia solo nel terzo atto, più incalzante e danzante con quel Baccanale da antologia per controllo delle dinamiche e ricchezza di colori.
Quando in buca c’è Barenboim, è inevitabile che sulla scena le stelle si sprechino e in questo Samson et Dalila ce ne sono ben tre: Elīna Garanča, Dalila che seduce già solo con quel timbro vocale scuro e avvolgente, Brandon Jovanovich, un Samson che canta e con sfumature e colori come capita di rado di ascoltare in quel ruolo, e Michael Volle, il sacerdote di Dagon molto sopra le righe come un grande attore gigione che non si prenda troppo sul serio nel ruolo del cattivissimo ma dal francese molto approssimativo. Bene tutti gli altri (compreso ovviamente l’Abimelech di lusso di Kwangchul Youn, come un cameo hollywoodiano). Di grande autorevolezza la prova dello Staatsopenchor, particolarmente nel primo atto.
Applausi calorosi e chiamate per tutti gli interpreti, molti fischi al team registico.
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