Corde e voci di Café Loti
In Taberna è il disco – cantato in sabir – del trio Cafè Loti, con Nando Citarella, Stefano Saletti e Pejman Tadayon
Il Café Loti a Istanbul era, temporibus illis, luogo di mediazione, di scambio d’idee, di liti che finivano immancabilmente in riconciliazioni (magari dopo il baluginare minaccioso di qualche lama).
Andava così ovunque nei punti cruciali del Mediterraneo, a Orano come a Genova, a Venezia, a Marsiglia, a Tunisi. Le lingue imparavano le une dalle altre a intendersi sul minimo comune denominatore di radici comuni, sull’affinità dei suoni, e dove le radici etimologiche non aiutavano, aiutava la fantasia del comporre a mosaico con spezzoni di suoni e sensi di altre lingue, fini a capirsi per davvero. Il sabir nacque così, ad esempio, con una finzione per molti versi identica a quella che ebbe lo swahili in Africa.
Cafè Loti, tra Istanbul e Napoli
È la quarta volta, per quanto ne sappiamo, che in un lavoro di ottimo folk “progressivo” tornano a risuonare le parole in sabir, estintosi alla svolta del Novecento, e parlato per secoli con il continuo rimescolamento di termini genovesi, siciliani, turchi, spagnoli, veneziani, arabi e via citando. Una volta lo raccolse la Piccola Banda Ikona, una i Radiodervish, e ultimamente un “Padre nostro” in sabir è risuonato nel disco dell’Orchestra Bailam.
Orchestra Bailam, il genovese lingua franca
E proprio Bailam, il trascinante ensemble genovese, è un buon termine di confronto con il nuovo lavoro dei Cafè Loti: perché l’idea di far risuonare note che, con ogni realtà, davvero hanno gonfiato di voli di armonici i cafè haman di Salonicco, di Smirne, di Istanbul e i tekès greci e le locande è davvero patrimonio comune. E ogni volta che un disco di neofolk ”mediterraneo” torna a far girare l’idea che le culture del piccolo mare furono soprattutto incontro, mediazione e trattativa, oltre che scontro frontale, vince un’idea di civiltà che troppi mestatori contemporanei vorrebbero ridurre al silenzio, o all’horror vacui sonoro delle bombe.
Cafè Loti è di base un trio con le corde, la voce e la tammorra di Nando Citarella, voce e corde arabe e mediorientali di Stefano Saletti, che della citata Piccola Banda è stato il fondatore, l’iraniano musicista (e pittore) Pejman Tadayon a voce, saz, oud e percussioni.
Qui si aggiungono le voci di Gabriella Aiello e Barbara Eramo, le percussioni di Giovanni Lo Cascio, i cori di Baobab Ensemble ed Equivox, le tammorre di Cymbalus Ensemble.
Serve, il tutto, perché questo lavoro è partito in due grandi campiture: la prima accoglie sei brani di composizione che mettono in conto sonoro schegge di Spagna medievale, Napoli e i trovatori francesi, il sabir per capirsi e commerciare, la Persia come chiave di volta per l’accesso all’Oriente. Nella seconda parte, che intitola tutto il progetto, In Taberna, Café Loti recupera invece lo spirito originale del Codex Buranus, il corpus di composizioni che tutti conoscono nella versione fastosa e tonitruante dei Carmina Burana. Qui l’intento è ben diverso, un lavoro per sottrazione che invece cerca di restituire equilibrio sottile tra sacro e profano, natura e cultura, canti maliziosi e pure espressioni mistiche: e anche qui risuonano tante lingue, a comporre un arazzo che è bello proprio perché multicolore. Senz’altro più “realistico” di quanto fece Carl Orff.
Centro ancora una volta, comunque, con una menzione particolare, oltre che per la consueta perizia strumentale, per la viva, spesso aspra vitalità delle voci.