Il Festival Verdi 2019 e la “sinistra inclinazione musicale” di Parma
Il discreto debutto con I due Foscari, Luisa Miller reclusa in una chiesa-prigione e un Nabucco stimolante e (naturalmente) contestato
Nell’ormai classica definizione che ritrae la terra che ha dato i natali a Giuseppe Verdi, raccolta da Bruno Barilli nel suo celebre Il paese del melodramma, la gente che abita Parma e dintorni viene descritta come un «popolo facile ad accalorarsi, travagliato e pieno di una sinistra inclinazione musicale». Lo ammetto, è fin troppo facile citare Barilli quando si parla di Parma e di Verdi, ma di fronte all’esito delle “prime” operistiche che hanno avviato l’edizione 2019 del Festival Verdi mi pare di aver assistito, oltre alle nuove produzioni de I due Foscari, Luisa Miller e Nabucco – a Busseto c’era anche la ripresa della piccola-grande Aida di Zeffirelli, che avevamo già seguito durante il festival del 2001 – anche alla rappresentazione plastica proprio di questa “sinistra inclinazione musicale”, e da diversi puti di vista. Ma andiamo con ordine.
I due Foscari (26 settembre)
Prima opera in cartellone, il nuovo allestimento de I due Foscari plasmato dalla regia Leo Muscato ha proposto una lettura pulita e fin troppo essenziale della vicenda tratteggiata dal libretto che Francesco Maria Piave ha tratto da Lord Byron, dove il dramma di Francesco Foscari e del figlio Jacopo si è consumato in un ambiente scenico quasi neutro, segnato da una grande piattaforma inclinata. Una sorta di cerchio simbolico, ripreso anche dalla gabbia di catene che ha circondato Jacopo Foscari nella scena delle prigioni, e che pareva rappresentare un mondo chiuso, isolato, inevitabilmente segnato da un destino ineluttabile. Ad abbracciare questo perimetro un semicerchio semovente, una sorta di muro che tracciava lo spazio delle differenti ambientazioni ora proponendo le effigi dei predecessori del Doge Foscari, ora offrendo variegate fessure di luce, ora salendo e scendendo nel quadro di una soluzione scenica (scene di Andrea Belli) sicuramente interessante, ma forse non sfruttata al meglio. Assecondata da un libretto il cui disegno narrativo non appare certo tra i più avvincenti, l’impressione generale è quella di un’astrazione elegante ma un poco statica, dove i protagonisti abitano una Venezia rievocata dai drappeggi del sipario e che dall’epoca originaria (1457) viene spostata tra Otto e Novecento, offrendo una soluzione di certo funzionalmente astratta ma a tratti incongruente: l’intervento di danza con le maschere tra Carnevale e Commedia dell’Arte è parsa, per esempio, fuori luogo.
Ravvivato dai bei costumi di Silvia Aymonino e dalle luci di Alessandro Verazzi, il palcoscenico del Teatro Regio ha ospitato quindi i personaggi di questa tragedia lirica, incarnati da una compagine vocale essenzialmente equilibrata, sulla quale si è imposto Vladimir Stoyanov, un Francesco Foscari sicuro e solido lungo i tre gli atti, affiancato da Stefan Pop (Jacopo Foscari), efficace ma fin troppo concitato e da Maria Katzarava che ha restituito una Lucrezia un poco approssimativa e vocalmente non del tutto a fuoco (specie nel primo atto). Da citare, tra gli altri, la prova di Giacomo Prestia (Jacopo Loredano) e la sicurezza di Vasyl Solodkyy (Fante). La direzione di Paolo Arrivabeni, alle prese con la partitura nell’edizione critica a cura di Andreas Giger, si è rivelata un poco sbrigativa, guidando la Filarmonica Arturo Toscanini attraverso equilibri timbrici e scelta di tempi che hanno alternato effetti trascinanti a momenti meno efficaci.
Alla fine dal pubblico – tutto il pubblico – tanti applausi per tutti, dai cantanti – con un’ovazione per Stoyanov – al direttore, passando per il regista e i suoi collaboratori.
Luisa Miller (28 settembre)
Abbandonato il Teatro Farnese dopo le originali proposte degli scorsi anni, il Festival Verdi per l’ormai tradizionale appuntamento con la messa in scena più sperimentale del cartellone ha scelto la Chiesa di San Francesco del Prato, monumentale struttura del XIII secolo, per oltre duecento anni trasformata in carcere e poi abbandonata, oggi vero e proprio cantiere in corso di restauro nel cuore della città. E in questo cantiere Lev Dodin ha immaginato questa nuova produzione di Luisa Miller, con le scene e i costumi di Aleksandr Borovskij, le luci di Damir Ismagilov, la drammaturgia di Dina Dodina (assistente regista Dmitrij Košmin). Per forza di cose, tra la selva di impalcature, tubi innocenti e strutture di allestimento di una platea capace di ospitare fino a 700 persone, gli spazi destinati al palcoscenico (senza quinte, naturalmente) hanno rappresentato un compromesso tra le esigenze drammaturgiche dell’opera e la suggestione di uno spazio carico di storia, il cui fascino architettonico si poteva intravvedere tra un tubo e l’altro. Il risultato si è presentato come una liturgia laica, dove un dramma borghese si è manifestato quasi in forma di oratorio su un altare ideale in attesa di riconsacrazione, ma per ora agibile per i giuochi animati dalle funeste gelosie incrociate che tratteggiano la trama di questo melodramma tragico su libretto di Salvatore Cammarano. Impostazione per forza di cose statica, con il coro a far da cornice su più livelli ridisegnando l’idea dell’abside, materico ventre di un’azione che si dipana circoscritta nel perimetro delineato da un’architettura tracciata da assi di legno. Un luogo dove si concentrano le diverse scene che compongono i tre atti di un’opera che trova qui una sublimazione narrativa insolita – segnata da una immobilità drammaturgica che, se trova verso il finale uno dei momenti più efficaci in un movimento di candelabri, ritorna a complicare la lettura con il sistematico avvelenamento di tutti i beveraggi in scena – con i personaggi quasi onnipresenti, ora protagonisti ora osservatori più o meno scenicamente coerenti. Un gioco di presenze reso funzionale dall’uso sapiente delle luci di Ismagilov, capace di accompagnare con efficacia l’impronta scenica di una compagine di canto forse un poco spaesata dall’inusuale ambientazione. Alla prima del 28 settembre, infatti, l’impressione complessiva è stata adeguata ma non superlativa, segnata dal mestiere sicuro e composto di Franco Vassallo (Miller), dalla solida eleganza interpretativa di Francesca Dotto (Luisa) e dal coinvolto impegno del resto di una compagnia che ha compreso Riccardo Zanellato (Il Conte di Walter), Amadhi Lagha (Rodolfo), Martina Belli (Federica), Gabriele Sagona (Wurm), Veta Pilipenko (Laura), Federico Veltri (Un contadino). Dal punto di vista musicale la vera cifra distintiva è stata regalata dalla raffinata lettura di Roberto Abbado, direttore musicale del Festival Verdi qui alla guida di un’Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna pienamente in grado di assecondare felicemente la visione di un direttore capace di indagare tra le pieghe dell’edizione critica di Jeffrey Kallberg, facendo emergere sottigliezze dall’eleganza misurata e, al tempo stesso, rapinosa. Un dato, questo, che ha rappresentato uno dei segni più incisivi della serata, al netto di naturali compromessi acustici imposti dal luogo, adornato tra l’altro da un nugolo di diffusori distribuiti tra un palo e l’altro e che, a quanto si è capito (ma mi posso sbagliare, naturalmente), servivano solo a comunicare al pubblico le istruzioni per lo spegnimento dei telefoni cellulari. Anche in questa occasione, applausi generosi per tutti, accesi di un particolare calore per Abbado e Vassallo.
Nabucco (29 settembre)
Proposta nella visione creativa firmata dalla coppia Ricci/Forte, con la regia di Stefano Ricci, le scene di Nicolas Bovey, i costumi di Gianluca Sbicca, le luci di Alessandro Carletti e le coreografie di Marta Bevilacqua, questa lettura del Nabucco verdiano si è presentata sul palcoscenico del Teatro Regio con un segno registico forte, pregnante nell’attualizzare la vicenda narrativa alla base di un melodramma conosciuto e popolare. E proprio la popolarità del soggetto – intrisa di tradizione esecutiva, nutrita di un’aspettativa che fa del rispetto pedissequo al libretto un dogma a lungo andare tendenzialmente stantio – è parsa (ma il sospetto è tutto mio) la causa primigenia dell’alzata di scudi – peraltro annunciata – da parte del “famoso” loggione di Parma alla prima del 29 settembre. Un loggione che, forse senza completa consapevolezza, è esso stesso parte dello spettacolo offerto dal teatro d’opera parmigiano: tra il pubblico parecchi stranieri (presenti peraltro anche nelle serate precedenti) e non, parevano osservare con un certo appagato apprezzamento le incursioni verbali che dall’alto della sala venivano indirizzate al palcoscenico, distribuite nell’intento, peraltro non riuscito, di ostacolare il prosieguo dello spettacolo. L’impressione è che, agli occhi (e alle orecchie) degli spettatori tedeschi, inglesi o francesi, le esternazioni del loggione parmigiano venissero comprese in quel ventaglio di aspettative turistiche che includono un paniere miscellaneo ed eclettico che annovera il Parmigianino e il Correggio, il prosciutto e il parmigiano, Verdi e – appunto – il loggione del Regio. Detto questo, rimane il sospetto che se la coppia Ricci/Forte si fosse confrontata con un titolo meno frequentato – un Oberto o un’Alzira, per dire – non si sarebbe manifestata questa bagarre, almeno in questi termini.
Ma, al di là delle considerazioni di contorno, la coppia Ricci/Forte del Nabucco verdiano ne ha restituita una visione estremamente stimolante, catapultata in un futuro tragicamente parossistico – il riferimento è il 2046 di Kar-wai Wong – dove il protagonista si trova a espugnare, perdere e riconquistare un mondo intrappolato in una nave, in un recinto abitato di riferimenti e connotazioni tra tragica storia recente e pressante attualità, che vanno dai salvagenti dei profughi in mare, alle pagine strappate e distrutte di libri, per arrivare alla dittatura dispotica dell’egocentrico leader del momento. Un’alternanza, questa, che vede prima Nabucco dichiararsi un dio, poi Abigaille prendere il suo posto al comando di un popolo oppresso, fino al recupero di un potere da parte dello stesso Nabucco che, alla fine, si è portati a sospettare velleitario e anacronistico, specie sulla scia di una presunta quanto strumentale conversione al “Dio di Giuda”. Una lettura registica non scevra di appesantimenti – l’albero di Natale – o di una ridondanza dell’impianto generale che ne disinnesca a lungo andare un poco il meccanismo espressivo. Rimane il fatto che lo scenario drammaturgico proposto funziona e stimola riflessioni e sollecitazioni come solo il miglior teatro riesce a fare. Vero e proprio valore aggiunto a questo allestimento una compagine vocale superlativa, con un granitico Amartuvshin Enkhbat (Nabucco), un solido Ivan Magrì (Ismaele), un eccellente Michele Pertusi (Zaccaria), una perfetta Saioa Hernández (Abigaille), oltre all’accurata Fenena di Annalisa Stroppa, e alle presenze efficaci di Gianluca Breda (Il Gran Sacerdote di Belo), Manuel Pierattelli (Abdallo) ed Elisabetta Zizzo (Anna). Bene anche Francesco Ivan Ciampa, che ha restituito una lettura solida dell’edizione critica curata da Roger Parker grazie a una reattiva Filarmonica Arturo Toscanini, completata da un Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani, in stato di grazia e valorizzato da un bis del “Va’, pensiero”.
Alla fine anche in questa occasione tanti gli applausi, attraversati però da dissensi rivolti alla parte registica, in una schermaglia che, come si diceva all’inizio, ha restituito l’immagine plastica – e, a quanto pare, ancora attuale – di quel «popolo facile ad accalorarsi, travagliato e pieno di una sinistra inclinazione musicale».
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