Nell’Isola Vasil’evskij vivono Sof’ja e Trofim Ivanič. È una coppia stanca. Lei non gli ha dato figli e si convince che quella sia la causa della loro infelicità. Il falegname muore e lascia sola la figlia Gan’ka. Sof’ja decide di prenderla in casa e si illude così di salvare il matrimonio e invece è solo l’inizio della fine: Trofim si innamora della ragazza, che sembra ricambiarlo, e in Sof’ja esplode un odio freddo che la spingerà a uccidere la rivale. E intanto la Neva si gonfia minacciosa ed alla fine esce dagli argini …
È il soggetto del racconto L’inondazione pubblicato nel 1929 da Evgenij Zamjatin, che diventa ora un’opera in due atti con la musica di Francesco Filidei e le parole di Joël Pommerat. La prima assoluta è in programma a Parigi, all’Opéra Comique che ha commissionato il lavoro con Angers Nantes Opéra e Opéra de Rennes, il prossimo 27 settembre e avrà come interpreti Chloé Briot, Boris Grappe, Norma Nahoun, Cypriane Gardin, Enguerrand De Hys, Yael Raanan-Vandor, Guilhem Terrail e Vincent Le Texier. L’Orchestre Philharmonique de Radio France sarà diretta da Emilio Pomárico.
Le prove sono nel pieno quando raggiungiamo a Parigi il compositore Francesco Filidei, che ha accettato con piacere di raccontare questa sua seconda avventura operistica dopo il fortunato Giordano Bruno di qualche stagione fa.
L’inondation è la tua seconda opera lirica. La prima, Giordano Bruno del 2015, è arrivata piuttosto tardi nel tuo catalogo, più o meno a vent’anni dai tuoi esordi. Come consideri l’opera o comunque il teatro musicale all’interno della tua produzione musicale?
«Prima, nel 2008, c’è stato N.N. per sei voci soliste e sei percussioni, una specie di oratorio o comunque una composizione simile ai madrigali rappresentativi di Adriano Banchieri tipo il festino del giovedì grasso. Questo lavoro prevedeva un impianto scenico piuttosto semplice, però già andava in direzione del teatro musicale. Subito dopo è venuta Opera (forse), che aveva un'idea di opera più compiuta ma durava soli in dieci minuti. Si tratta di una composizione con le strutture tipiche dell'opera cioè aria, recitativo, duetti, solo che al posto dei cantanti prevede un uccellino e un pesce».
E arriviamo al 2014 cioè al Giordano Bruno, la tua prima vera opera.
«Il Giordano Bruno è un’opera “retablo” con una struttura a dodici quadri come le dodici note, cioè molto strutturata dal punto di vista formale, in cui quindi prevale il ruolo del compositore più che l’idea di opera in senso classico. L'inondation, invece, è la mia prima opera “autentica”: due ore e venti di musica con un’orchestra completa e dieci solisti di canto. “Autentica” nel senso che ricalca la forma, il modello delle opere di Massenet, di Puccini e degli altri operisti “fin de siècle”, un momento nel quale l’opera ha potuto incontrare il massimo favore da parte del pubblico come genere. Detto ciò il termine “opera” lo si può usare da Monteverdi a Stockhausen anche se si parla di oggetti musicali molto diversi».
La tua opera autentica si darà in uno dei luoghi iconici dell’opera europea: l’Opéra Comique. Questo luogo ha un qualche ruolo nella tua composizione?
«L’idea in effetti è proprio quella, cioè ci troviamo in un tempio dell’opera che ha accolto le prime di Pelléas et Mélisande, di Carmen. È il teatro d’opera stesso al suo meglio, cioè è un luogo pensato per quel genere. La mia opera sarebbe potuta essere tutt’altra cosa se fatta in una centrale elettrica abbandonata o un capannone industriale. Il testo di Zamjatin, che è davvero magnifico, si sarebbe prestato a uno sviluppo completamente diverso. Il punto di partenza de L'inondation è stata partire dal “quadro” dato – quindi orchestra in buca, cantanti in scena e così via – cioè il luogo in cui l’oggetto “opera” ha raggiunto la sua massima espressione e quindi la distruzione di quell’oggetto dall'interno, in un certo senso. Anche nel Giordano Bruno c’era un’intenzione simile, costruire cioè il lavoro in un modo che ricalca o rievoca la tradizione per poi, dal di dentro, insinuare il dubbio che ci sia altro. Per fare un parallelo con una certa pittura, nei miei intenti è grossomodo come fa Gerhard Richter in quei lavori materici nei quali ci sono strati di colore sovrapposti strappati oppure come quelle immagini post-impressioniste nelle quali si vede una figura umana come in una fotografia ma il colore la sfuma e la rende indefinita».
Quanto è stato importante il soggetto de L'inondation, cioè il racconto di Evgenij Zamjatin ancorato ancora a una tradizione naturalista, molto classiche, per la tua ispirazione?
«Joël Pommerat mi ha proposto diversi soggetti, tutti russi, ma il racconto di Zamjatin era il più forte e il più interessante. In quel racconto c'è dentro tutto quello che si possa sperare per un'opera, per certi versi. Per me l’opera è un rito: l’atto di entrare nel teatro è già parte integrante di quel rito così come il luogo del teatro e l’attesa, il sipario che si apre e così via. L’opera è una forma “morta”, senza più la forza di un tempo e il suo peso sociale è ormai solo un ricordo. Ma nel suo essere strumento inevitabilmente passato trova la sua forza».
«L’opera è una forma “morta”, senza più la forza di un tempo e il suo peso sociale è ormai solo un ricordo. Ma nel suo essere strumento inevitabilmente passato trova la sua forza».
«Per me è ancora uno strumento forte, anzi è più forte di uno strumento che può essere dato dall’oggi. Mi sento come se sollevassi il cadavere di un’opera dimenticata per farlo danzare ancora una volta. Così facendo, ritrovo il senso del rito che l’opera stessa comporta. Il fatto che la mia opera nasca in un luogo come l'Opéra Comique supporta questa visione».
Che tipo di modifiche avete apportato al soggetto originale?
«In primo luogo abbiamo eliminato l’ambientazione russa del racconto e anche i nomi dei personaggi, che nell’opera sono semplicemente e astrattamente la donna, l’uomo, la giovane e poi il vicino e la vicina, il poliziotto (che è anche il narratore) e il medico. Soprattutto abbiamo deciso di spostare all’inizio dell'opera l’omicidio della ragazza (Gan’ka nel racconto originale): è un cambiamento importante che mi ha convinto che potevo andare avanti con la composizione. Quando Pommerat me l’ha proposto, ho capito che quello era proprio quel quadro da poter distruggere dal di dentro. Con quello spostamento si sarebbe creato un vuoto nel momento in cui l’omicidio avviene nel flusso del racconto che io avrei potuto utilizzare come tempo vuoto, come una finestra che si affaccia sul buio o sul nulla. Poi invece ho trovato un’altra via per sgretolare questa costruzione classica: di tanto in tanto è come se in situazioni di bellezza musicale o coloristica si aprissero delle crepe. Mi viene in mente un film molto indicativo, cioè Repulsion di Roman Polanski con quella ferita nel muro che a poco a poco si apre. Quella ferita è la stessa che si apre nel tessuto musicale».
Già dal titolo, L’inondazione dà rilievo a un fenomeno naturale, che ha una forte valenza simbolica nel racconto. È così anche nell’opera?
«Anche nella mia opera l’inondazione ha un ruolo molto importante ma la vera inondazione accade in orchestra. C’è un momento fondamentale nell’opera: nel libro dopo l’omicidio della ragazza, la donna è a letto con il marito e ha un incubo o un’allucinazione. Sente bussare alla porta e pensa sia la ragazza che lei stessa ha ucciso. Ma dietro la porta non c’è nessuno. Quella è la porta dell’inconscio e da quel momento niente può essere come prima, nemmeno nell’orchestra: l’orchestra esplode in un fortissimo di tutti gli strumenti, in una sorta di “quodlibet”. È come se molti temi dell’opera venissero accatastati e a partire da quel momento tutto cambiasse. L’orchestra comincia a produrre rumori come battiti di denti, dita scrocchiate e altri suoni che la liberazione della protagonista non riesce più a contenere: la donna butta fuori tutto quello che aveva dentro e lo lascia libero di fluttuare. Questo ectoplasma che invade l'orchestra, la fossa orchestrale, è ormai libero: questa è la vera inondazione».
Nelle note pubblicate nel programma di sala si legge: “lo scrittore condivide con il compositore l’elaborazione dei dialoghi e dei tempi dello spettacolo” e ancora “dalla loro stretta collaborazione, da questa composizione portata avanti a due per la scena, con la complicità di musicisti e cantanti, nasce un nuovo linguaggio che traduce la densità sorda di una vita interiore”. Si direbbe che l’opera sia in effetti il frutto di uno sforzo collettivo: è davvero così?
«Questo processo è stato un po' come quello di un pittore che dipinge davanti a un modello. L’opera è nata e si è sviluppata da una collaborazione molto stretta con Pommerat, fondamentale per lo sviluppo drammatico, e da un’interazione con i cantanti che fungevano da modelli in una serie di seminari all’Opéra Comique. Io scoprivo il testo di ogni scena preparato da Pommerat insieme ai cantanti. Lo leggevamo insieme attorno al tavolo di lavoro una o due volte. Mi impregnavo di questo testo e lo facevo mio chiedendo ai cantanti di soffermarsi su certe parole, di ripeterle, di sussurrarle. I dialoghi venivano quindi letti con l’accompagnamento della violoncellista Séverine Ballon, che suonava delle frasi musicali seguendo le mie indicazioni. Rileggevamo ancora una volta il testo e Pommerat interveniva aggiustandolo e aggiungendo i movimenti e i tempi per le azioni sceniche. In seguito, scrivevo rapidamente la melodia al pianoforte per ogni cantante. Riproducevamo quindi la scena e la ritoccavamo dove necessario, registrando il risultato in video. In seguito ho riscritto tutto al computer e creato una sorta di modello. Questo processo è stato abbastanza rapido. Per l’orchestrazione, invece, c’è voluto molto più tempo».
Nel racconto di Zamjatin spiccano particolarmente due aspetti: quella della natura e ovviamente quella psicologica. I dialoghi praticamente non esistono e le espressioni verbali dei personaggi sono ridotte a poche frasi banali. Come avete tradotto questi aspetti nell’opera?
«In effetti all'inizio del lavoro Pommerat era piuttosto preoccupato soprattutto perché pensavamo a un’ora e mezzo di musica ma ad un certo punto le ore sono diventate due e mezzo… L’orchestra naturalmente prende in carico molto di quello che succede “dentro” ai personaggi. Ho lavorato soprattutto per definire lo spazio mentale della protagonista, ma intervengono comunque anche il “macromondo”, cioè quello degli eventi atmosferici come l'inondazione, il vento, il rumore della pioggia, e il “microspazio” del ticchettìo della pendola, della campana, del canto degli uccelli, delle ali della mosca».
La musica è ben presente nella vita dell’ingegnere navale Zamjatin: la madre era musicista e lui stesso partecipò alla stesura del libretto del Naso di Šostakovič. L’atmosfera di corruzione morale de L’inondazione fa piuttosto pensare alla Lady Macbeth. “Pornofonia” è una qualificazione che temi per la tua opera?
«Parlando di porno, c’è un episodio divertente. Nell’opera ci sarebbe una scena di sesso. Nella prima versione avevo creato una specie di orgasmo in musica in omaggio a Šostakovič. Nella versione successiva ho sostituito questa musica con una ninnananna, che la vicina canta per far dormire i bambini, mentre i due protagonisti fanno l’amore. Funziona molto meglio adesso devo dire, ma personalmente trovo che il triviale sia talvolta necessario. Spesso questo registro è presente nelle mie composizioni e non è assente nemmeno in quest’opera».
«Trovo che il triviale sia talvolta necessario. Spesso questo registro è presente nelle mie composizioni e non è assente nemmeno in quest’opera».
«Nell’Inondation, per esempio, un problema è dare il senso del trascorrere del tempo, come nel racconto. Alcune scene si svolgono a tre mesi o sei mesi di distanza dalla precedente. Nell’opera c’è una scena particolarmente importante ed è quella in cui la donna scopre il tradimento del marito. Mi sembrava che la musica qui dovesse tacere. Anche i protagonisti non cantano. Si ascoltano solo in lontananza gli interventi dei vicini che giocano coi bambini e qualcuno al pianoforte che sta facendo le scale di do maggiore con la mano destra a tentoni, evidentemente un pianista principiante. Nella scena immediatamente successiva, che ha luogo qualche mese dopo, si sente ancora il pianoforte ma questa volta sono scale di re maggiore o di altre tonalità a due mani, molto più veloci e sicure: il principiante ha fatto progressi. È un gioco ma è un modo per far capire che sono passati dei mesi».
Accanto a uno strumentario piuttosto classico, nella tua opera c’è una sovrabbondanza di percussioni, descritte con abbondanza di dettaglio in partitura. Quello per le percussioni è un amore che viene da lontano...
«Quello che mi interessa da sempre è la struttura temporale di un pezzo o piuttosto l’evolversi del tempo. Questo può essere fatto con suoni, con gesti. Le percussioni di per sé assommano forse al massimo grado questa possibilità, anche per l’ambiguità che possiedono, fra corpo e gesto, e per la mancanza di una altezza determinata che si presta a esprimere le ambiguità rispetto al quotidiano».
Un elemento che torna frequentemente nelle tue composizioni sono gli uccelli: è un tuo omaggio personale a Messiaen o semplicemente condividi la stessa passione ornitologica?
«I richiami di uccello sono nati quando dovevo scrivere un pezzo per flauto a becco e violino. A quel punto ho pensato a imitare Vivaldi e ovviamente le Quattro stagioni e da lì i richiami di uccello. Che poi in effetti non mi sono estranei fin dall'inizio proprio per un organista di formazione come me: i richiami di uccelli artigianali sono praticamente come canne di organo. I registri più acuti a un piede sono già richiami di uccello e anche le ance e gli altri tipi di richiamo e poi se prendi gli organi italiani del Cinquecento o del Seicento o del Settecento hai il rossignolo e altri suoni imitativi della natura».
Fra Giordano Bruno e L'inondation c'è un bel salto. Cosa c'è da aspettarsi per il tuo prossimo lavoro per il teatro musicale?
«Il mio prossimo lavoro sarà un oratorio di grandi dimensioni. Niente opera per ora. Non che non ci pensi: soggetti ne avrei fin troppi ma il problema è trovarne uno che interessi ai teatri e ai registi. I compositori contano ormai meno di zero: il mondo va troppo veloce per ascoltare!».
«I compositori contano ormai meno di zero: il mondo va troppo veloce per ascoltare!».
Proposte dall’Italia?
«Parlando di opera, in Italia abbiamo proprio dimenticato quello che siamo stati. Ci siamo persi per strada quell’identità che per me è ancora molto valida e che potevamo continuare a vendere in tutto il mondo. Scrivere un'opera in italiano oggi è un problema, perché in Italia di opere nuove se ne fanno pochissime e qualche volta i teatri nemmeno eseguono la partitura che ti hanno commissionato. All’estero chiedono ovviamente altre lingue. In alcuni bandi per la commissione di opere nuove non viene contemplato proprio l'italiano! Ci siamo giocati anche questo che era forse l'unica cosa per la quale la lingua italiana teneva».
«Parlando di opera, in Italia abbiamo proprio dimenticato quello che siamo stati. Ci siamo giocati anche questo che era forse l'unica cosa per la quale la lingua italiana teneva».
«Più in generale, nei teatri si fa sempre di più un tipo di lavoro che non va nella direzione che sto cercando di proporre. La voce non amplificata è vicina alla forza che sprigiona la vista di un corpo nudo, cioè ha una forza in sé, una forza devastante che puoi avere solamente nel teatro. Le voci amplificate te le ascolti già in televisione».