È senza dubbio la sua opera più eseguita con poco meno di 50 diversi allestimenti dopo la prima assoluta a Schwetzingen nel 1998; eppure Salvatore Sciarrino ne parla con una certa riluttanza, sebbene sia proprio il nuovo allestimento di Luci mie traditrici firmato da Valentino Villa per la regia e Tito Ceccherini per la direzione il motivo per cui è a Venezia, dove lo incontriamo a pochi giorni dalla prima al Teatro Malibran.
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A Venezia, luogo che da mezzo secolo è culla di molti suoi lavori, Sciarrino riserva anche un piccolo regalo: la prima esecuzione assoluta di Distendi la fronte, “congedo” per cinque voci con strumenti, un epilogo nello stile di Don Giovanni per creare un distacco dalle vicende tragiche dell’assassinio dei due presunti amanti per mano del Malaspina alla quale si è appena assistito (“… così l’orrore che fu visto / non ci sporchi di sangue / ma sia tutto dato alla memoria”) e dare così una forma definitiva alla sua opera.
Nel frattempo, il compositore conferma la sua ancora rigogliosa vena creativa con un’altra incursione nell’universo dei miti classici con Il canto s’attrista, perché?, scene da Eschilo, che vedrà la luce in marzo a Klagenfurt e in maggio a Wuppertal.
Incontrare Salvatore Sciarrino e parlare con lui è come entrare nella storia del suo teatro che il suo eloquio inesauribile evoca con aneddoti e racconti affascinati di miti che hanno la semplicità dei nostri racconti quotidiani.
Luci mie traditrici è praticamente un classico, come avviene assai di rado con le opere contemporanee, che difficilmente superano un unico ciclo di rappresentazioni. Come spieghi le ragioni di questo successo?
«È una maledizione come forse fu il Barbiere per Rossini? Tu come lo spiegheresti? C’è chi dice di fare solo capolavori. Invece io non amo né la retorica né le certezze».
«È una maledizione come forse fu il Barbiere per Rossini? Tu come lo spiegheresti?».
«È curioso perché l’unica mia vera opera lirica è Perseo e Andromeda, un'opera femminista, dura come la pietra, come il vento, come il mare su cui si svolge, sotto lo scoglio di Andromeda. Un ménage curioso! Lei rifiuta di seguire Perseo, l’uomo che con l’aiuto delle “superarmi” degli dei ha ucciso il drago, la creatura che minaccia la sua vita ma che poi diventa la natura che in qualche modo la protegge, quasi come la sua balia. Andromeda, dapprima incuriosita di questo uomo, comincia a essere perplessa e chiede tempo per salutare la sua isola e il mare. Ma si accorge che Perseo sbadiglia e allora lo congeda dicendogli: “Andate via! Avete sbagliato isola” e lei resta sullo scoglio con il mare in tempesta, di notte. Questo è Perseo e Andromeda: la mia prima grande opera veramente lirica. C’è già tutto, c’è l'invenzione della sillabazione, c’è l’elettronica, che è usata in un modo impopolare: non ci sono scintille, smalti, cose rutilanti. L'elettronica fa il suono del vento modulato in più modi, il suono delle pietre battute con cui lei tira con la fionda agli uccelli, e il mare, che può essere appena increspato così come invece una cascata di rumore nero».
Nondimeno il vero successo arriva con Luci mie traditrici. Come lo spieghi?
«Non lo so. Scherzo! So di aver fatto centro. Volevo tornare alle origini del melodramma, alla forza di Monteverdi».
Si può dire che Luci mie traditrici sia più semplice o più accessibile?
«No, non è né più semplice né più accessibile. Te ne parlo indirettamente se posso. Intanto si parla di femminicidio, oggi si direbbe così. Se tu leggi Luci mie traditrici in modo trasversale, la storia, attraverso la musica, è la chiave di questa opera. In questa prospettiva si collega bene all’Incoronazione di Poppea. Non ti sembra?».
Ripartiamo della versione veneziana, che per la prima volta conterrà un “congedo”. Di cosa si tratta? E come è nata l’idea?
«L’idea è nata da una proposta della direttrice della Gare du Nord, uno spazio teatrale piccolissimo a Basilea, piuttosto raffinato nei programmi e nelle ambizioni. Mi chiede di fare una mescolanza a pettine fra l'Orfeo di Monteverdi e Luci mie traditrici. Ha capito la mia intenzione di riformare il teatro e il mio modello sotteso che è monteverdiano. Io sono curioso e la proposta mi interessa. Poi mi dice che il trattamento l’ha già pensato e che manca soltanto un finale e mi chiede di darle uno dei miei dodici Madrigali da mettere alla fine. “Ma cosa c’entrano i Madrigali?” le rispondo, “Ci vuole piuttosto un congedo al pubblico”. Penso a quello del mio Macbeth, che ha un altro accento perché tratta la tragedia sociale. Ci vuole un congedo nuovo, più adatto al fatto privato di Luci mie traditrici».
«Dopo qualche giorno ci sto ancora pensando e già mi pagano prima ancora di scrivere. In Distendi la fronte riprendo la melodia degli intermezzi di Luci mie traditrici nei soli del clarinetto basso. Solo questo gorgoglio si collega a Luci mie traditrici. È fatto con meno strumenti, ha un colore molto particolare e molto affascinante. Mando quindi il pezzo, ma cosa succede? Commetto un errore, secondo me, gravissimo: considero che alla fine escono in scena i quattro personaggi (struccati o ancora col trucco o forse nudi) ma i personaggi in realtà sono cinque».
Manca cioè la voce dietro il sipario, che apre l'opera, cantando i versi dell’elegia di Gilles Durant de la Bergerie?
«Appunto. È quella che crea il clima di tensione. Io sono critico prima di tutto su me stesso e persona con venature di umiltà o di ascetismo. Riconosco quel grande errore e anche i tanti, che trovo nella partitura di Basilea. Nel frattempo il Teatro La Fenice aveva programmato l’opera e decido di correggere e di riscrivere quel Congedo per i cinque interpreti. E decido di regalare questa prima assoluta a Venezia e alla Fenice, per cui nutro gratitudine».
Alla Fenice e a Venezia tu vanti una presenza lunga mezzo secolo: da La Berceuse del 1969 per la Biennale Musica, Amore e psiche del 1977, Cailles en sarcophage nel 1979, ripresa nel 1980 al Teatro Malibran …
«Ma c’è anche Da a da da che feci nel 1970 anche per la Biennale Musica con l'Orchestra della Radiotelevisione di Zagabria, allora una delle migliori orchestre. È un pezzo timbrico per un organico gigantesco che suona più elettronico dei miei. Era un frammento ma l'opera completa non l'ho mai realizzata. Poi ci sono state anche le Variazioni per violoncello e orchestra negli anni Settanta, Quaderno di strada sempre per la Biennale Musica negli anni 2000».
… e poi un’interruzione che si interrompe solo nel 2013 con Aspern seguita da La porta della legge l’anno successivo e ora Luci mie traditrici, tutte inserite nel cartellone del Teatro La Fenice. Come mai questo lungo silenzio a Venezia?
«L’interruzione è dovuta forse all’incendio del teatro e quindi anche all’interruzione della normalità della Fenice, compreso l’utilizzo da parte di altri enti. Forse questo ha separato la Biennale dalla Fenice. Io l’ho anche detto in molte occasioni ai responsabili della Biennale: ma perché non riprendete una collaborazione? Ci sono mille forme di collaborazione. Alla Biennale hanno anche un atelier teatrale: io stesso ho fatto da tutor a dei giovani compositori… Perché non dovrebbe partecipare la Fenice in questo?».
Venezia ti ha anche assegnato due premi prestigiosi: “Una vita per la musica” nel 2014 e il Leone d’oro della Biennale Musica nel 2016. Cosa significa Venezia per te?
«Il mio legame con Venezia è fortissimo. Ernesto Rubin de Cervin e la moglie Maria Teresa sono stati i miei primi mecenati oltre che amici sinceri. Io vivevo in miseria. A Roma non avevo riscaldamento ma per fortuna passavo gran parte del tempo degli inverni a Palazzo Albrizzi, loro ospite. Quegli inverni passati a Venezia sono fra i ricordi più belli e strani che conservo. Ernesto ha scritto il primo saggio su di me, che tutti hanno dimenticato ma io no, in cui accostava certi argomenti importanti di Heidegger per analizzare la mia posizione anomala. Ha scritto meglio e più giustamente su di me lui che Bortolotto, che invece amava gli aspetti ludici, che non esistono, nella mia musica».
«La mia è una musica ecologica, semmai, ed è questo che ti fa riflettere diversamente sui drammi».
«La mia è una musica drammatica, forse anche fantasmagorica. Io non la trovo tanto incline al gradevole, nel senso commerciale o nel senso caratteriale. È una musica ecologica, semmai, ed è questo che ti fa riflettere diversamente sui drammi».
Ecologica? Vuoi spiegare?
«Io ho sempre predicato l'ecologia attraverso l’acusticità della mia musica. Una volta chiesero a Gérard Grisey, carissimo amico e collega: "ma perché tutto questo non lo fai con l'elettronica?" La risposta: "Ma è molto più semplice così". Lui faceva l’analisi elettronica dei suoni per poi riprodurla con l’orchestra. Io invece rivelo la natura degli strumenti e la indago. Indago non il suono in sé, soprattutto indago come noi lo percepiamo, perché è la percezione che cambia il suono».
«Indago non il suono in sé, soprattutto indago come noi lo percepiamo, perché è la percezione che cambia il suono».
«Il suono più normale del mondo può suonare strano se lo introduci in una dimensione psicologica diversa. Quella musica che componevo già negli anni Settanta era già una musica aggiornata scientificamente, se vuoi, post-einsteniana, una musica che scriveva i frattali senza poterli ancora nominare (per inciso Da a da da è uno dei pezzi rigorosamente frattali), perché tutta la teoria sui frattali è arrivata più di dieci anni dopo».
Torniamo a Luci mie traditrici e in particolare a tre tue affermazioni, che mi sembrano particolarmente interessanti perché mettono in luce tre aspetti del tuo comporre per il teatro: «Luci mie traditrici è un’opera nel pieno senso del termine… La sua forza risiede nell’espressione del canto, nella creazione di uno stile vocale. Uno stile di nuovo inventato».
«La parte lirica nella mia musica nasce, per così dire, prima della parte recitativa. Il bello della mia invenzione di formule di tipo recitativo è che suonano come parlati ma in realtà sono controllati col canto e dunque possono dare infinite sfumature psicologiche. Si tratta di glissati controllati nella loro lentezza, che scatenano un'aura di microtonalità tipica del parlato. Il parlato è il fenomeno meno temperato che ci esista, se lo si analizza. Col canto do l'illusione del parlato. Quando la parola si dispiega ampiamente nel canto, c'è l'espressione lirica. Ma quando ha bisogno di serrarsi, di essere proprio "vomitata" ci sono questi veicoli velocissimi che sembrano parlati e non lo sono. Il direttore di questa produzione veneziana, Tito Ceccherini, mi diceva che secondo lui l’espressione vocale di Luci mie traditrici è una specie di grande arioso. Credo sia proprio così. Ecco perché dico che Perseo è un'opera lirica e che Luci mie traditrici è meno lirica anche se è un'opera lirica nel senso stretto della parola».
Seconda citazione: «Il mio è un teatro “dopo” il cinema, a partire dal modo in cui sono tagliate le scene, che procedono per blocchi secchi che “sottraggono” e fanno capire quello che avviene».
«Si ottiene una maggiore tensione per sottrazione. Non hai bisogno di vedere un omicidio ma puoi anche troncare prima che avvenga o dopo che è avvenuto. Per esempio, la quinta scena di Luci mie traditrici è tagliata in un modo cinematografico: nella scena precedente nel giardino, il servo ha spiato la Malaspina e l’ospite. Segue il lungo buio nel quale intuisci la corsa del servo e il suo ansimare. Si riapre la quinta scena e noi non sentiamo l’accusa del servo o il suo racconto dettagliato, ma percepiamo solo il suo respiro affannato e il dolore e la sorpresa del Malaspina, che si domanda: "ma è possibile?". Non abbiamo bisogno di rendere in maniera banale o pseudo-realistica i fatti, ma li possiamo raccontare in un modo molto più forte, molto più emozionante e direi, non più nobile, ma più alto. Ecco perché adesso sono passato a Eschilo».
Facciamo una digressione: ci racconti cos’è Il canto s’attrista, perché?, l’opera che vedrà la luce a Klagenfurt nella prossima primavera?
«L’opera si insinua fra l’Ifigenia di Gluck e l’Elektra di Richard Strauss: sentiamo finalmente la voce di Clitemnestra. Siamo a Argo quando re Agamennone torna a casa dopo dieci anni trascorsi a Troia a fare la guerra. Torna con Cassandra al suo fianco, la preda di guerra che gli ha offerto il suo esercito e quindi sua concubina. Clitemnestra lo ha atteso dieci lunghi anni e dice di amare quell’uomo però dice, come in Eschilo, “se ricevesse tante pugnalate da essere bucato come una rete da pesca si capirebbe cos’è successo a me con tutte le chiacchiere che mi tormentavano in questi anni”. Ma in lei è ancora aperta la ferita per la perdita della figlia Ifigenia, uccisa dallo stesso Agamennone in sacrificio agli dei».
«Come in Luci mie traditrici, anche in questa opera è fatta di quadri asciutti. Non compare Egisto, di cui Clitemnestra parla come del protettore della casa. Alludendo a lui, la donna chiude dicendo: “Sistemeremo tutto per bene”. Rispetto a Eschilo, ho sfoltito molto i cori per evitare tutti gli antefatti della guerra di Troia. Credo anche di essere riuscito a eliminare ogni puzza di aula chiusa sfrondando il linguaggio di espressioni che non significano più nulla oggi. Cassandra non dice “ahimé” ma canta come un uccellino impaurito: “Ototototoi popoi popoi da, Apollo Apollo”».
Anche queste saranno scene dal taglio cinematografico?
«Innanzitutto, questo modo di tagliare il tempo, in salti dimensionali, è una caratteristica della mia musica da sempre. Tutto questo lo porto in Eschilo. Per esempio, Clitemnestra rievoca il sacrificio di Ifigenia cantando una frase, che ho preso da tre righe del coro di Eschilo, dal gergo cinematografico. Dice: “le tapparono la bocca, scivolarono le vesti colorate, voleva parlare …”. È come uno zoom sui suoi occhi mentre il padre Agamennone alza il coltello su di lei. I ritmi sono cinematografici e di conseguenza i tagli. In questo senso post-cinematografico questo lavoro è il figlio forse maggiore, mi auguro, di Luci mie traditrici».
Anche Il canto s’attrista, perché? avrà un epilogo?
«Anche quest’opera si chiuderà con un congedo. Si tratta di una riflessione sull’infelicità degli uomini. Il coro intona: “O sorte degli uomini / È l’ombra di un sogno la felicità / Se giunge sventura sparisce anche l’ombra. / Una spugna cancella il dipinto / Dolore e pietà”. Cassandra lo canta in maniera abbreviata prima di entrare nel palazzo dove verrà assassinata, mentre invece nel finale è esattamente come in Eschilo.
Torniamo alle citazioni e concludiamo con questa: «Luci mie traditrici voleva essere la vera e propria affermazione di una riforma del teatro, perché l’uso delle voci, l’invenzione e la maturazione dello stile vocale permettono di nuovo di fare teatro, non solo di cantare genericamente sulla scena, cosa che non mi ha mai interessato».
«Per me il canto non è vocalizzare. Il canto è la forza della parola e la forza della musica unite. Io non so come si riesce. Non te lo posso raccontare. Non l’ho mai insegnato a nessuno perché non lo so io stesso. Lo reinvento sempre».
«Per me il canto non è vocalizzare. Il canto è la forza della parola e la forza della musica unite. Io non so come si riesce».