Stradella, il festival e la danza nella lingua 

Il direttore d'orchestra Andrea De Carlo racconta l'arte e la musica di Stradella, protagonista nascosto del Seicento musicale

Alessandro Stradella Festival - Andrea De Carlo
Articolo
classica

Nella sua breve carriera Alessandro Stradella ha lasciato un segno inconfondibile nella storia della musica, ma le sue turbolente vicende biografiche paradossalmente hanno finito per nuocere alla conoscenza approfondita della sua musica. Aneddoti e leggende rimbalzate da un autore all’altro nel corso dell’Ottocento hanno alimentato una fama fittizia costituita da romanzi, melodrammi e un film, e solo recentemente alcune sue composizioni sono riemerse dall’oblio.

La recente attribuzione dell’opera Amare e fingere fatta da Arnaldo Morelli arricchisce il catalogo stradelliano di un nuovo titolo, ma è probabile che altri ne seguiranno dato l’interesse crescente verso il compositore nato nel 1643 a Bologna e assassinato nel 1682 a Genova.

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Uno degli artefici della riscoperta delle opere di Stradella è Andrea De Carlo che con il suo ensemble Mare Nostrum si dedica a tempo pieno al compositore cresciuto a Nepi e poi a Roma. Il gambista e direttore d’orchestra ha creato un festival intitolato al compositore e ha avviato con l’etichetta discografica Arcana l’ambizioso progetto di registrazione delle sue principali opere, iniziato con la pubblicazione della serenata La forza delle stelle (2014) seguita da San Giovanni Grisostomo (2015).

Abbiamo chiacchierato con Andrea De Carlo per chiedergli come sia nato l’interesse verso Stradella, e quali siano i principali contenuti della nuova edizione festival Alessandro Stradella, che si svolgerà dal 31 agosto al 22 settembre 2019.

«Ho creato il Festival nel 2013 a Nepi intitolandolo già a Stradella, poi tre anni fa si è fuso con il Festival Barocco di Viterbo e ora i concerti si svolgono anche a Caprarola, a Castel Sant’Elia e a Ronciglione. Il fatto che si è da poco scoperto che il compositore sia nato per caso a Bologna non cambia molto, anzi ora sappiamo che ha passato a Nepi più tempo di quanto si credesse in passato, e che tutta la sua formazione musicale e culturale è avvenuta in ambiente romano, presso la famiglia Lante, dove probabilmente  ha conosciuto il musicista Ercole Bernabei che era di Caprarola».

Come è nato l’interesse verso Alessandro Stradella?

«Da ragazzino ero un bassista rock, poi ho fatto il contrabbassista jazz, e alla fine mi sono avvicinato alla musica classica, suonando nell’Orchestra Sinfonica della Rai e nell’Orchestra del Teatro Massimo di Palermo. A un certo punto grazie al film Tutte le mattine del mondo ho scoperto la viola da gamba, e così ho conosciuto Paolo Pandolfo e tutto è nato da li. Quando ho iniziato a dedicarmi alla musica vocale sono rapidamente arrivato a Stradella».

L’interesse verso la musica vocale è legato anche a quello verso la lingua italiana, e alla presenza delle doppie consonanti, come ha scritto nella presentazione delle seconda edizione del Festival, parlando di “danza della lingua”.

«Questo è il motivo per cui ho iniziato a fare musica vocale e poi sono arrivato a Stradella. La storia delle consonanti è nata per caso guardando una partitura di Monteverdi nella quale ho cominciato a osservare che il compositore in corrispondenza delle doppie consonanti scriveva ritmi puntati, e non soltanto in corrispondenza di quelle scritte ma anche dei rafforzamenti sintattici. Ho iniziato a chiedermi se ci fosse un legame, e ho iniziato a fare delle riflessioni sul ritmo della lingua e sulla forma della lingua parlata e i suoi suoni. Mi sono chiesto perché in genere si dice che la lingua italiana sia così bella. La lingua italiana è piena di vocali, e spesso si pensa che siano le vocali a dare musicalità, ma le vocali sono in un certo senso suoni piatti, la maggior parte delle parole ha l’accento sulla penultima sillaba, che chiamiamo accentuazione piana».

«Mi sono chiesto perché in genere si dice che la lingua italiana sia così bella».

«Le sdrucciole e le tronche sono poche nella lingua italiana, ma quando abbiamo una consonante semplice la vocale che la precede è lunga, mentre se c’è una doppia consonante la vocale è breve, e prende tutto lo spazio e diventa una sorta di gesto, quasi di balzo nell’aria, ed è il vero strumento che abbiamo nella lingua italiana per dare forma ai suoni e quindi diventa il responsabile della danza, della forma e degli affetti della lingua».

È il segreto della musica del Seicento?

«Sì, ed è il segreto della bellezza della nostra lingua. Gli affetti della parola sono legati alle doppie consonanti. La parola è il gesto interno del tuo pensiero, immagino un gesto emotivo che avviene prima dentro di noi… Pietro Bembo scrivendo su Petrarca si era avvicinato alla questione, e in realtà senza saperlo stava scrivendo un trattato sulla doppie consonanze. Petrarca sceglieva delle parole che suonavano bene, e trovava una disposizione delle doppie organizzando versi che danzano. I dittonghi sono pozzanghere scivolose. Ci hanno insegnato che l’elisione è un fatto metrico, ma in realtà è uno strumento per creare una doppia consonante».

Questo spiega la sua estrema cura dell’articolazione delle frasi musicali e alla chiarezza della pronuncia?

«Sì perché parte tutto da lì, ai cantanti si insegna a intonare le vocali, e agli strumentisti l’alternanza tra suoni brevi e lunghi. La forza del recitativo è basata sulla danza della poesia nella quale lo strumento principale sono i suoni rimbalzanti delle doppie consonanti».

Grazie alla pubblicazione dei dischi e alle esecuzioni musicali del festival lo straordinario talento di questo compositore si rivela progressivamente.

«Stanno per uscire altri due volumi, il primo è l’opera Amare e fingere, registrato live in Germania a novembre scorso per la WDR, e il secondo è l’oratorio Ester liberatrice del popolo ebreo. Con i primi dischi ho iniziato ad avvicinarmi alla musica romana del Seicento sia strumentale che vocale. A questo proposito Roma è stato il luogo dove si è parlato latino più a lungo, ed era dunque il territorio ideale per realizzare quello che volevo mettere in pratica. Poi ho registrato il primo disco di Stradella già con l’intenzione di farne una collana. Inizialmente il festival era stato ispirato anche da questo desiderio, e via via è diventato un progetto che coinvolge anche la formazione e la ricerca in una prospettiva molto più ampia». 

Andrea De Carlo (Foto Gabriela Torres Ruiz)
Andrea De Carlo (Foto Gabriela Torres Ruiz)

A proposito di formazione, lo Stradella Young Project è nato insieme al Festival?

«In realtà è nato l’anno precedente, nel 2012, con la produzione della serenata La forza delle stelle, che poi è divenuta il primo volume della collana discografica. Questa rappresenta il mio primo incontro con la musica di Stradella, perché mi ero ritrovato a eseguirla qualche anno prima all’interno di una produzione didattica  fatta da allievi e professori nella quale erano previsti tre gruppi orchestrali, difficili da coordinare tra loro. Mancava un direttore, e il giorno prima del concerto mi sono offerto di dirigerli, e da allora non ho più smesso».

Nel programma del Festival quest’anno verrà eseguita Amare e fingere con i giovani dello Stradella Y-Project.

«È una delle cose più belle di Stradella che io conosca. È stata messa in scena  nel 1676, dunque è un’opera giovanile molto complessa, ricca e piena di contrasti. Si vede che il compositore stava sperimentando perché è piena di pulsioni, e ci sono così tante modulazioni che ho preferito usare il temperamento equabile. Nelle opere del periodo genovese invece si avverte la maturità, e al posto della complessità esplosiva e istintiva di gioventù, c’è l’equilibrio di una grande sintesi».

A proposito della attività che svolge con lo Stradella Y-Project , ha affermato che  Stradella è un compositore quasi senza tempo perché il suo stile abbraccia la musica dal Rinascimento fino alla musica contemporanea e che dunque è l’ideale per avvicinare i giovani al linguaggio musicale barocco.

«Se ne può parlare a diversi livelli. Il livello emotivo e personale deriva dal fatto che la sua musica è collegata alle sue urgenze interne, e quando scrive si riflettono le sue profonde emozioni e sfugge alle convenzioni. Aveva una cultura contrappuntistica degna di un compositore fiammingo, e una complessità ritmica quasi degna di un compositore del Medioevo. In mezza battuta di Stradella succede di tutto, pensa invece (vedi il principio di conservazione dell’energia) al basso nella musica di Haydn. In Stradella c’è qualcosa ancora di rinascimentale, nella densità del pensiero musicale. Nella proporzione tra lunghezza e complessità».

«In mezza battuta di Stradella succede di tutto».

«Quando Stradella fa delle cose folli, avverti che lo sente in quel modo, c’è una sincerità nel gesto, non fatta per trasgredire le regole, ma sta vivendo quella emozione fisica che si traduce in quel passaggio armonico, ed è per questo che è completamente atemporale. Sciarrino riferendosi al recitativo finale di Aman condannato a morte nell’oratorio Ester, nella parte dove si passa per tutte le tonalità, ha detto che sembrava Luigi Nono».  

Charles Burney ha scritto che Purcell conosceva la musica di Stradella, e che per il suo uso intensivo dei bassi ostinati potrebbe aver ricevuto l’ispirazione proprio dal compositore italiano.

«Qualche anno fa scaricando l’edizione ottocentesca dell’opera omnia di Handel ho notato che alla fine vi era inserita la cantata di Stradella Qual prodigio è che io miri. Chrysander stesso spiega che i cori di Israele in Egitto sono presi da questa cantata , e poi specifica che l’aria “Be Wise”  è presa da un’altra cantata, Amor sempre avvezzo. Francesco Maria Veracini nel Trionfo della pratica musicale parla molto di Stradella dicendo cose interessantissime, definendolo il più grande operista, e che famosi compositori si sono vestiti delle piume di altri uccelli come nella favola di Esopo, ma nello specifico caso di uno solo, e sta parlando di Handel che in realtà ha preso molto da Stradella».

Che cosa è Il Trespolo tutore con il quale si inaugurerà il festival nel Palazzo Farnese di Caprarola?

«È l’unica opera buffa di Stradella, anche se in altre opere, come La Doriclea, vi sono elementi buffi, come ad esempio il basso Giraldo. Anche se è fondamentalmente comica, l’opera ha risvolti toccanti, struggenti e amari. Nel 1679 mentre stava per comporla, scrisse a Flavio Orsini dicendo che a Genova il pubblico aveva gusto per questo tipo di opere e che "farà scoppio". La scrisse per la stagione del  Carnevale del Teatro Falcone. Il libretto di Giovanni Cosimo Villifranchi è meraviglioso. Il poeta si era ispirato alla commedia teatrale Amore è veleno e medicina degl’intelletti di Giovan Battista Ricciardi, il cui personaggio principale si chiamava Trespolo Tutore, ed è così che veniva comunemente chiamata. In una lettera il librettista si scusa con l’autore della commedia affermando che i musicisti che l’avevano scelta come soggetto delle loro opere l’avevano storpiata». 

Chi è questo personaggio?

«Trespolo è un vecchio babbeo, un basso buffo, che è il tutore di una giovane fanciulla, Artemisia, a cui è morto il padre che lo aveva incaricato di trovarle un marito. La prima situazione comica è presente fin dall’inizio, perché la ragazza è innamorata del tutore ma lui non se ne accorge, anche perché è a sua volta innamorato di Despina, la figlia della vecchia serva Simona. L’opera si apre con i versi di avvertimento della madre alla figlia, “Ti torno a dire, Despina, che il marito si piglia come la medicina, che quando può giovare non bisogna badare, e sebben contro il gusto, senza pensarci su, bisogna serrar gli occhi e mandar giù”, ed è piena di doppi sensi dall’inizio alla fine».

«Gli altri due personaggi sono due fratelli nobili, Nino e Ciro, entrambi innamorati di Artemisia. All’inizio dell’opera Nino torna da un lungo viaggio fatto per curarsi del mal d’amore, perché non corrisposto, invece Ciro che era rimasto è impazzito. Mentre si dipanano tutti gli equivoci, la speranza di poter sposare Artemisia favorita da una falsa promessa di Trespolo fa rinsavire Ciro, ed è a sua volta Nino che inizia ad impazzire. Nell’ultimo atto ci sono due scene di follia. La prima è “O quanti soli”, nella quale Nino inizia  a perdere il senno, con un ariosetto nel quale si dice “cantava su un bemolle un barbagianni”. La seconda è la scena guerriera “Tarapatà” nella quale Nino vede  fantasmi, e in questo punto le sonorità orchestrali sono davvero incredibili. Penso che si tratti di qualcosa di veramente unico nel panorama musicale del Seicento. E verso la fine accadono cose incredibili, con un finale a sorpresa…».

Nel programma del festival c’è anche un concerto intitolato Il sogno di Arianna, il mito al femminile nelle cantate di Stradella.

«È un programma costruito sui personaggi mitologici delle sue bellissime  cantate, come Arianna, Elena di Troia, Leda. La cosa interessante e per certi versi sorprendente è che presentano una scrittura molto diversa da quella delle opere e degli oratori  pieni di arie piuttosto brevi. Nelle cantate invece sono spesso lunghe e di grande virtuosismo, con una forte intensità drammatica, e in questo concerto sono affidate alla voce di Roberta Mameli».

Poi ci sono i Racconti dalle città di mare.

«Anche in questo caso si tratta di cantate, anche se dal clima più disteso e sereno, nelle quali sono evocati temi marini. Non solo rispecchiano il mio amore per il mare, ma è un programma che si riferisce anche al nome del nostro ensemble Mare Nostrum che accompagnerà Giuseppina Bridelli».

Oltre alle conferenze di Andrea Garavaglia e Arnaldo Morelli su temi stradelliani, c’è un evento dedicato a Pessoa.

« È un poeta che adoro, ed è stato una scoperta molto importante nella mia vita. Nel mondo della fisica, come in quello della cultura l'inizio del Novecento è stato fondamentale, e l'arte anticipa in un certo senso quello che accade nella scienza con la destrutturazione… Nel programma questo accostamento con la figura di Pessoa è nato dalla attività del fotografo Gabriele Croppi che cura le nostre copertine dei nostri dischi e anche l’immagine del Festival. Lui farà una masterclass di fotografia affrontando il rapporto con le altre arti, e mostrerà il suo docufilm su Pessoa».

Dobbiamo aspettarci che spunti fuori altra musica di Stradella in un prossimo futuro?

«Penso di sì. Sappiamo di titoli che ancora non siamo riusciti a trovare. Stradella era un autore prolifico e si è spostato molto per l'Italia, e così ci dovrebbero essere in giro altre sue musiche che ancora devono essere scoperte. In una sorta di catalogo delle opere eseguite a Roma verso la fine del Settecento, dopo la sua morte, figura un oratorio intitolato Santo Antonio. Potrebbe trattarsi di un errore, oppure no».

«Penso che se Stradella non fosse morto così giovane, la musica del Settecento sarebbe stata diversa».

«Penso che se Stradella non fosse morto così giovane, la musica del Settecento sarebbe stata diversa. Flavio Orsini dopo la sua scomparsa fece pubblicare solo il libretto della sua ultima opera Moro per amore, affermando che il pubblico aveva perso il gusto per una musica di tale ricchezza contrappuntistica e così originale per i suoi  recitativi. In effetti la sua musica è molto ricca e molteplice…».

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