Gruppo fondato nel 2005 in Francia, paese dove tra l’altro può contare sul supporto del Ministère de la Culture et de la Communication e sulla sponsorizzazione della Caisse des Dépôts and Montpensier Finance, Le Cercle de l’Harmonie ha ormai alle sue spalle una presenza significativa presso le più prestigiose istituzioni d’oltralpe – come il Théâtre des Champs-Élysées, l’Opéra Garnier e l’Opéra Comique – e nei cartelloni di molti festival internazionali. L’uso degli strumenti d’epoca ha permesso a questa formazione e al suo direttore Jérémie Rhorer di sviluppare un’idea interpretativa storicamente informata, particolarmente attenta alle intenzioni di ciascun compositore, per restituirle al mondo contemporaneo grazie alle sonorità originali e a un adeguato studio stilistico. La loro discografia, che conta diverse opere mozartiane, dal Don Giovanni a La clemenza di Tito, più recentemente si è arricchita grazie all’incisione dell’Olympie di Gasparo Spontini (realizzata per il Palazzetto Bru Zane).
L’occasione per incontrare Rhorer è stata offerta dalla sua presenza agli Audi Sommerkonzerte, che si sono svolti a Ingolstadt dallo scorso 29 giugno fino al 14 luglio. Alla guida di Le Cercle de l’Harmonie, dell’Audi Jugendchorakademie e di un bel gruppo di solisti – tra cui il soprano Sarah Wegener e il tenore Werner Güra – Rhorer è stato impegnato nell’esecuzione de Das Paradies und die Peri di Robert Schumann. E l’intervista che abbiamo potuto realizzare si apre proprio parlando di questo brano.
Das Paradies und die Peri di Robert Schumann non ha la stessa notorietà, per esempio, del Carnaval o del Concerto per pianoforte. Quale è la sua idea su questo lavoro – uno tra i primi di più ampie dimensioni scritti dal tedesco – e come pensa di proporlo al pubblico di oggi?
«Questo oratorio di Schumann per me rappresenta un vero capolavoro. In effetti è generalmente considerato in modo riduttivo, ma ciò nasconde semplicemente una scarsa conoscenza, a volte le persone addirittura ignorano che Schumann abbia scritto un brano di questo tipo. Non ha la stessa risonanza del repertorio pianistico o cameristico, né di quello sinfonico, tuttavia sono rimasto colpito dall’importanza che esso ha avuto, per esempio, per un grande compositore come Ravel. Dal suo allievo Manuel Rosenthal sappiamo che Das Paradies und die Peri era una delle partiture che costantemente lo interessava, affascinato non solo dalla maestria di Schumann nell’armonia ma anche dal rapporto che riusciva a creare tra quest’ultima e le esigenze della drammaturgia. In questa partitura trovo ci siano degli altissimi risultati nella capacità descrittiva della musica, che trovano fondamento nel sapiente dell’armonia».
«Das Paradies und die Peri per me rappresenta un vero capolavoro. Sono rimasto colpito dall’importanza che esso ha avuto, per esempio, per Ravel».
«Anche per Čajkovskij questo pezzo rappresentò un uno tra più superbi capolavori, dunque abbiamo il riconoscimento da parte di due compositori – anch’essi maestri nel campo dell’armonia e in quello della tensione drammatica nel linguaggio sinfonico – che furono considerevolmente impressionati da questo oratorio. Per noi questo deve rappresentare uno sprone a guardare con rinnovato interesse a Das Paradies und die Peri. Alla base dello scarso interesse che oggigiorno suscita c’è anche l’argomento, forse troppo aperto in termini di sincretismo sulle religioni e le relative visioni del mondo, metterle tutte sullo stesso piano resta un elemento di disturbo. Ma, d’altro canto, la ritengo una partitura che molto dipende da un’esecuzione storicamente informata, data la grande difficoltà nel rendere l’aspetto teatrale insito nella musica stessa. Una moderna orchestra sinfonica, con la sua pesantezza e le sue dimensioni, rischia di trovarsi in difficoltà nel restituire le articolazioni e la trasparenza del testo musicale, in breve nell’esprimere quello che Schumann aveva in mente».
Il fatto che Le Cercle de l’Harmonie usi strumenti storici rappresenta dunque molto per compositori come Schumann e non solo?
«Certamente, un approccio storico può significare parecchio per comprendere quello che un compositore intende esprimere. L’ampiezza dell’orchestra alla quale siamo oggi abituati risale in realtà all’ultimissimo periodo del secolo XIX, viceversa durante l’intero secolo l’orchestra e gli stessi strumenti si sono evoluti molto lentamente prima di arrivare a quello standard. La cosa riguarda anche un musicista come Verdi: abbiamo realizzato un progetto su La traviata, tenendo conto proprio del fatto che gli strumenti per i quali egli scrisse erano in definitiva molto vicini a quelli che noi usiamo. Quello che per me è importante non è tanto essere dogmatici su questo aspetto, quanto piuttosto mettere il compositore al centro della propria interpretazione. Naturalmente non possiamo garantire un risultato perfetto da questo punto di vista, ma conoscendo quali erano gli intendimenti dell’autore, rispettandone la statura artistica, abbiamo se non altro la possibilità di evitare incomprensioni e fraintendimenti nel riproporre le sue opere oggi. Sono sempre più convinto che spesso – soprattutto nel repertorio lirico – si tenda a ricercare cosa un determinato lavoro possa dire nel nostro tempo senza mostrare alcun interesse nel tentare di comprendere cosa quel lavoro avesse rappresentato per il periodo in cui è stato scritto. Così però si rischia di travisare l’intenzione del compositore».
Abbiamo appena parlato di Verdi, di recente ha inciso l’Olympie di Spontini: quale è l’ambito temporale che in definitiva attira maggiormente il suo interesse? Quali sono i suoi prossimi progetti?
«Per il futuro sono sempre più orientato a occuparmi del periodo romantico. Per esempio ho un progetto con il Brucknerhaus a Linz, puntando soprattutto a evidenziare come Brahms e Bruckner lavorarono contemporaneamente al repertorio sinfonico: il confronto – proporremo un programma con una sinfonia di ciascuno di questi due autori – consente di mettere in luce la loro vicinanza geografica, il fatto che avessero a che fare con i medesimi strumenti dell’orchestra, che convivessero con le medesime preoccupazioni artistiche, avessero insomma un background comune che tuttavia li portò a scelte musicali differenti».
«C’è da superare un certo conservatorismo, ma dobbiamo cercare di mettere sempre più al centro il rispetto del compositore e proporre maggiormente questo tipo di visione storica».
«Per quanto riguarda il repertorio operistico, continueremo a esplorare la trilogia di Verdi, affrontando Rigoletto e Il trovatore. Soprattutto ritengo importante evidenziare, nel repertorio al quale mi sto accostando, la totale continuità tra il cosiddetto periodo classico e quello che oggi definiamo il periodo romantico, classificazioni che artificialmente vanno a distanziare autori e opere tra i quali viceversa c’è un legame molto più forte di quello che potremmo pensare».
Affrontando Verdi tra l’altro si presenta la questione del diapason. Lo stesso musicista al diapason di 435 Hz in uso al Teatro alla Scala preferiva quello che si adoperava a Parigi, 432 Hz.
«Questo naturalmente è un punto centrale. Credo che Verdi, con questa propensione, volesse anche richiamare l’ascendenza che su di lui aveva avuto il repertorio francese, piuttosto che quello tedesco. Altrettanto importante, per capire le motivazioni del musicista italiano, è rendersi conto che all’epoca vi era una non trascurabile connessione tra la musica italiana, francese e russa, e trovo che questo sia più importante di quanto spontaneamente ci verrebbe di pensare oggi».
Ritiene che il traguardo per il futuro sia un sempre maggiore uso degli strumenti d’epoca per il repertorio romantico e tardo romantico?
«Spero proprio di sì. C’è naturalmente da superare un certo conservatorismo, ma dobbiamo cercare di mettere sempre più al centro il rispetto del compositore e proporre maggiormente questo tipo di visione storica».