Molte luci e qualche ombra con Audi al Festival di Aix-en-Provence
La prima volta di Tosca al festival, il Requiem di Mozart secondo Castellucci, una brillante Mahagonny, Esa-Pekka Salonen e alcune novità
Pierre Audi, anno uno. Un debutto promettente accompagnato da un grande interesse da parte del pubblico, non privo di ombre e forse qualche spunto per aggiustamenti futuri. Certo Audi porta al Festival di Aix-en-Provence una lunghissima esperienza alla guida di diversi festival e soprattutto i trent’anni alla guida della vivacissima Opera Nazionale Olandese di Amsterdam, di cui il programma 2019 porta numerose tracce. Una di queste si chiama Michel van der Aa, allievo di Louis Andriessen ma da sempre impegnato in lavori segnati da una forte multimedialità ispirata a una idea aggiornata di “Gesamkunstwerk” nella quale l’immagine filmica la fa da padrona. Del compositore olandese il festival riproponeva Blank Out, una produzione del 2015 dell’Opera Olandese di Amsterdam (coprodotta con il Festival di Lucerna e l’Opera di Roma) in prima francese. Un lavoro interessante giocato sull’interazione straniante fra una cantante-performer (il soprano Miah Persson) “reale” e uno nelle immagini filmate in 3D (il baritono Roderick Williams) è funzionale al racconto di un annegamento in cui si confondono vittima e sopravvissuto. L’immagine però tende a soverchiare una trama musicale essenzialmente vocale decisamente esile. Un problema di cui sembra soffrire anche di più l’installazione sonora Eight del compositore nell’incantevole cornice della tenuta agricola di Château La Coste, che, più che per la qualità musicale, sarà probabilmente ricordata come una delle prime incursioni musicali nel territorio della realtà aumentata. Sembra un gioco (o magari un videogioco) ma la riflessione sul futuro è comunque aperta.
Si muove invece in territori più tradizionali l’altra novità del cartellone, l’accattivante opera da camera The Sleeping Thousand dell’israeliano Adam Maor su libretto di Yonathan Levy, andata in scena in prima assoluta con grande successo al Théâtre du Jeu de Paume e prossimamente in tour a Lussemburgo, Bruxelles e Lisbona. Ancora una volta, per un lavoro prodotto da un israeliano, perno della trama è l’eterno conflitto israelo-palestinese, questa volta però tradotto in chiave di favola o piuttosto di parabola filosofica o magari di fantapolitica, come ritiene Maor, con accompagnamento di musica insinuante anche se non davvero onirica a cura degli United Instruments of Lucilin diretti da Elena Schwarz e un trattamento vocale che ha più di una traccia di cantillazione ebraica. Il “sonno lucido” al quale vengono costretti i mille detenuti palestinesi provoca un incubo paranoide collettivo negli israeliani e tuttavia è proprio quel sonno che libera i palestinesi dall’oppressione della storia e fa loro conquistare una nuova dimensione esistenziale autonoma. La pace? Te la puoi solo sognare.
Nel programma principale, la grande novità è Tosca. Sì, proprio quella di Puccini, mai vista a Aix in 71 anni di festival. Per l’occasione arrivano i complessi dell’Opéra de Lyon diretti dal loro direttore musicale Daniele Rustioni, che vara una collaborazione triennale con Aix-en-Provence con un titolo nelle sue corde. O almeno sulla carta perché a guastare la festa ci pensa Christophe Honoré, che firma un allestimento sconclusionato che si direbbe piuttosto affermazione puramente narcisistica e sinceramente inconcludente. Per Honoré Tosca è la rappresentazione del mito della diva, idea di per sé non sbagliata: in fin dei conti Floria Tosca è una cantante specialmente quest’opera è stata il cavallo di battaglia delle più autorevoli interpreti del secolo scorso. Tramontate le vere divine, per la scena all’aperto dell’Archevêché la scelta è caduta sulla settantunenne Catherine Malfitano, di cui si ricorda la partecipazione nella televisiva Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca, produzione RAI del 1992. La scena di Alban Ho Van è la casa della vecchia melodiva in versione Norma Desmond, presa dai ricordi e generosa di consigli alla giovane rivale Angel Blue e al tenorone Joseph Calleja, visibilmente attratto dalla matura padrona di casa, ma molto meno agli altri, Scarpia incluso (Alexey Markov), che bivaccano nelle cucine della diva e si divertono a stuzzicare il prestante maggiordomo tuttofare (Jean-Frédéric Lemoues) della diva in disarmo. Dopo un primo atto che ricorda vagamente la brillante pièce “callasiana” Master Class di Terence McNally, lo spettacolo si avvita completamente nel secondo atto nel quale Honoré tenta un parallelo impossibile e confuso fra la fiction melodrammatica dell’opera pucciniana e le intricate dinamiche fra interpreti/personaggi. Mentre la giovane Tosca vestita con il costume di scena della Callas (che compare anche nel montaggio di immagini video con altre grandi dive durante il “Vissi d’arte”) viene pressoché stuprata da Scarpia, l’altra infila delle banconote nello slip del maggiordomo in versione gigolò ma fermandosi prima di consumare l’atto. Probabilmente non sapendo come uscire dal groviglio, Honoré opta per una classicissima versione concertante per il terzo atto, con orchestra sul palco e cantanti in proscenio, funestata appena dalla Malfitano che canta come può le poche battute del pastorello, avvolta in rossi veli vaga fra i leggii degli orchestrali e finalmente si accascia mentre la protagonista dovrebbe saltar giù da Castel Sant’Angelo. Applausi. Liberatori?
Sulla qualità degli interpreti è davvero difficile formulare un giudizio. Angel Blue ha certamente delle buone qualità vocali ma il confronto con le grandi interpreti che fan mostra di sé sulla scena dell’Archevêché è francamente impietoso. Non va molto meglio a Joseph Calleja, che frequenta Cavaradossi da lungo tempo ma che appare davvero completamente estraneo al concetto teatrale, ma nemmeno allo scialbo Alexey Markov. Quanto alla direzione d’orchestra, se i primi due atti li gioca di rimessa, Daniele Rustioni si impone davvero solo quando conquista pienamente la scena nel terzo atto e lì Puccini vince a man bassa.
Tutto da buttare dunque? Dipende. Se la si misura in termini di straniamento brechtiano, questa Tosca batte nettamente Ascesa e caduta della città di Mahagonny, opera in tre atti di Weill & Brecht andata in scena al Grand Théâtre de Provence in un allestimento molto “glam” firmato da Ivo van Hoeve. La parabola della città di Mahagonny, creata dal nulla in un indefinito deserto americano da Fatty, Moses e Begbick come città-reticella per acchiappare gonzi da tutto il mondo con la promessa di una cuccagna perpetua: “Qui una settimana è: sette giorni senza lavoro”. Il messaggio funziona ma, si sa, non è tutt’oro quel che luccica e a Mahagonny l’oro è solo quello dei poveri gonzi in cerca di una vita migliore. Whisky e sesso come in una catena di montaggio: finito uno, avanti l’altro. Anche per i quattro tagliaboschi arrivati dall’Alaska il risveglio è amaro, quando non ci rimettono le penne: Jack mangia fino a scoppiare, Joe soccombe nel duello a pugni con Moses e a Jim, smaltita la sbronza, viene presentato il conto che non può pagare. Ma a Mahagonny la legge è chiara: per chi non paga, non c’è che la morte. Sempre che non possa comprarsi i giudici. Jim viene giustiziato ma la fine di Mahagonny ormai è segnata e votata alla distruzione. Se ne vanno tutti verso la prossima terra promessa, mentre Moses, come un profeta biblico, accusa tutti di immoralità e evoca per loro l’inferno.
La satira corrosiva e cinica di Brecht su un capitalismo senza freni e allora fresco del primo epocale schianto e da tutti i disastri anche politici che ne seguirono. Fortunatamente Van Hoeve risparmia allo spettatore il predicozzo – i punti di contatto con l’oggi sono fin troppo evidenti – e confeziona uno spettacolo agile e accattivante come la scena modulabile di Jan Versweyveld, che fa larghissimo uso di immagini video e riprese live di Tal Yarden contro un green screen per dare concretezza, almeno filmica, a sfondi immaginari. Ossia la metafora del cinema, che proprio negli anni di Mahagonnyviveva la sua prima fase di splendore, come pura illusione. Di gran lusso il “soundtrack” firmato dalla splendida Philharmonia Orchestra guidata con gesto analitico e lucidamente tagliente da Esa-Pekka Salonen. Il resto lo fa il coro Pygmalion, abituato a altri repertori ma perfettamente intonato al mondo sonoro di Weill, e una locandina che forse riscalda poco ma è comunque inappuntabile con protagonisti Annette Dasch (Jenny) e Nikolai Schukoff (Jim) e ancora Sean Panikkar (Jack), Thomas Oliemans (Bill) e Peixin Chen (Joe) fino ai tre veterani Karita Mattila (Begbick), Willard White(Moses) e Ala Oke (Fatty).
Occasione per un altro “soundtrack” per la Philharmonia Orchestra e sempre dal vivo è la proiezione ancora al Grand Théâtre de Provence di Metropolis, kolossal fantascientifico di Fritz Lang, girato nel 1927 e dunque nello stesso clima culturale della Germania weimariana pre-nazista di Mahagonny. Lo specialista Frank Strobel sale sul podio per dirigere la musica di accompagnamento composta da Gottfried Huppertz, già collaboratore di Fritz Lang per Die Nibelungen. Grande successo all’epoca ma caduto in oblio come molti capolavori del muto, a Aix-en-Provence si è finalmente vista la versione integrale non solo della pellicola, grazie al paziente lavoro di restauro e integrazione recente di alcune sequenze che si ritenevano definitivamente perdute, ma anche dell’opulenta colonna sonora originale di Huppertz, molto legata al modello wagneriana compresa nella densità sinfonica dell’organico, fatto salvo qualche modaiolo ballabile anni Venti in omaggio ai tempi.
Apprezzeremmo la bellezza di un fiore se non sapessimo che quella bellezza domani sarà già appassita? Se lo chiede e ce lo chiede Romeo Castellucci che firma l’unico spettacolo mozartiano di un festival nato mozartiano, ma che da parecchi anni non propone che un solo titolo del Salisburghese. Per l’edizione 2019 non presenta nemmeno un’opera ma il Requiem, lavoro estremo e incompiuto del catalogo mozartiano. Anche se il lavoro è irrappresentabile mancando di esplicita drammaturgia, non è la prima volta che se ne realizza una messa in scena, così come di altre composizioni sacre (un esempio recente, la bachiana Johannespassion allestita da Peter Sellars con i Berliner Philharmoniker) . Castellucci ovviamente evita la sequenza (scontata) di morte, rito funebre e dolore e, pur partendo da una morte, quella di una anziana fotografata nei gesti quotidiani in una stanza nera prima di coricarsi e scomparire inghiottita dal proprio letto, rovescia il senso della composizione per celebrare piuttosto la vita. Una strana celebrazione, tuttavia, che, dietro i momenti rituali e le danze folcloriche in girotondo (le coreografie sono di Evelin Facchini) che celebrano il ciclo della vita, mostra in una scansione inesorabile e gelidamente drammatica i lemmi dell’“Atlante delle grandi estinzioni”, rovesciamento apocalittico dello spirito enciclopedico del mozartiano secolo dei Lumi. Lungo tutto lo spettacolo, scorre un’impressionante sequenza di entità scomparse nel nostro pianeta, animali, piante, architetture, città, luoghi geografici, popolazioni, lingue, opere d’arte …
Un equilibrio si rompe alla fine del “Lacrimosa”, la sezione nella quale si interrompe la scrittura di Mozart solo dopo otto battute: il coro collassa al suolo, la scena piomba nel buio, la musica tace (cantano solo i grilli). E poi la musica riprende come il movimento danzante. Per la prima volta nella storia dell’umanità si contempla anche la fine di tutto, l’estinzione della nostra stessa specie, magari seppellita dai propri rifiuti, come sembra evocare l’immagine terribile con cui si chiude lo spettacolo: la scena che si alza lasciando precipitare cumuli di terra e lacerti cartacei della scenografia davanti alla data che marca l’oggi dello spettatore. Presto l’ultimo giorno, chissà. Però … Sulla scena desolata si muove una creaturina di pochi mesi, sola, e l’esile voce di un bambino canta “In Paradisum”, canto gregoriano intonato alla fine dei riti funebri. Sopravviveremo?
Partner della più recente incursione teatrale di Castellucci è Raphaël Pichon, giovane direttore barocchista di grande talento e sinceramente interessato alla componente teatrale, alla quale contribuisce costruttivamente intarsiando nel tessuto del Requiem frammenti di brevi composizioni sacre mozartiane poco note, incorniciando il tutto fra due canti gregoriani. Formidabile è soprattutto il lavoro fatto sull’ensemble strumentale Pygmalion, capace una morbidezza di suono e una levità agogica perfettamente intonate con la visione rasserenante del direttore. Non certo inferiore è la prestazione del Coro Pygmalion, vero attore dello spettacolo e sempre perfetto nell’espressione musicale, cui si aggiungono le ottime prove dei quattro solisti – Siobhan Stagg, Sara Mingardo, Martin Mitterrutzner e Luca Tittoto e i giovanissimi Chadi Lazreq e Elias Pariente in alternanza – altrettanto partecipi allo spirito della rappresentazione. Il momento alto di questo festival è finalmente arrivato.
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