Aida torna alle Terme di Caracalla
La stagione estiva dell’Opera di Roma iniziata con il grande successo di prammatica per l’opera simbolo della lirica all’aperto
Sono passati i tempi in cui l’opera a Caracalla significava innanzitutto Aida con gli elefanti o almeno con i cammelli. Adesso l’opera egiziana di Verdi è tornata tra i ruderi delle terme del sanguinario e violento imperatore in una veste più dimessa. In scena una piramide e due muraglioni rastremati verso l’alto, che potevano ricordare il “pilone”, cioè la facciata d’un tempio egizio, richiamavano alla mente l’Egitto ma allo stesso tempo le loro superfici lisce e luccicanti sarebbero andate bene in un film di fantascienza. Questi tre elementi erano mobili e venivano disposti in modi sempre diversi per ridurre o per ampliare l’ampiezza del palcoscenico, a seconda dell’alternarsi di scene intimistiche e kolossal. Ruotavano anche su sé stessi e allora potevano ospitavare nel loro interno cavo la scena del giudizio di Radamès e la tomba in cui è sepolto vivo. Ogni tanto faceva la sua apparizione una struttura lignea cubica, che sorreggeva siparietti raffiguranti un Egitto dipinto nello stile dei pittori orientalisti dell’Ottocento o ospitava il canneto in riva al Nilo. C’era anche il palco reale di un teatro d’opera, da cui il faraone e la figlia, vestiti in abiti egizi, assistevano alla scena del trionfo. Anche in altri momenti l’epoca dei faraoni e il 1871 si incontravano, talvolta con una punta d’ironia, come nelle sei trombe “egizie” suonate da sei signori che indossavano elegantissimi frack neri. Il senso di queste e altre idee ingegnose di tal tipo avrebbe potuto farcelo capire meglio la regia di Denis Krief – autore anche di scene, costumi e luci - che invece si limitava a disporre in buon ordine protagonisti e masse sul palcoscenico, preoccupandosi che non cadessero nella solita gesticolazione melodrammatica, senza però sostituirla con un segno registico più incisivo. Tutto ciò poteva anche essere interpretato – e a me pare la spiegazione più plausibile – con l’intenzione di dimostrare che quest’opera è effettivamente un bric à brac, senza però riesumare l’Aida pompieristica di anni ormai fortunatamente lontani.
Musicalmente le cose non erano iniziate benissimo, con Alfred Kim, che cantava “Celeste Aida” in modo esteriore, stentoreo e povero di colori, per di più con un fastidioso vibrato. Subito dopo entrava in scena Amneris, Judit Kutasi, che aveva una voce più timbrata ma per il resto ricalcava le orme del tenore. Poi entrambi andavano gradualmente migliorando fino al loro duetto dell’ultimo atto, che era una dei momenti più belli – molto belli - dell’esecuzione, sotto l’aspetto sia della vocalità che dell’interpretazione. Vittoria Yeo iniziava nel migliore dei modi, delicata ed emozionante in “Numi pietà; ma già al terzo atto mostrava un certo affaticamento: probabilmente è una voce troppo lirica per una parte lunga e drammatica come Aida, ma si direbbe che neanche ella sappia che voce ha, perché un giorno canta Liù e dopo qualche giorno Lady Macbeth. Molto bene l’Amonasro di Marco Caria, drammatico ma misurato, senza la vocalità “selvaggia” che talvolta gli viene attribuita. Bene anche Ramfis di Adrian Sâmpetrean, il re di Gabriele Sagona, il messaggero di Domingo Pellicola e la sacerdotessa di Rafaela Albuquerque.
A dare fuoco alle polveri della musica di Verdi era soprattutto il direttore Jordi Bernàcer, che, combattendo vittoriosamente l’acustica delle Terme di Caracalla, ha colto senza estenuazioni i momenti più delicati e senza clangori quelli più grandiosi, dimostrando che dietro gli uni e gli altri c’è sempre il Verdi del 1871, che sapeva usare in modo raffinato i suoi mezzi ma non andava a cercar farfalle sotto l’arco di Tito (per usare un’espressione adeguata all’ambiente archeologico) e badava sempre al risultato drammatico della sua musica. Ottima la risposta dell’orchestra dell’Opera (anche strumenti dal suono delicato come il primo oboe e le due arpe riuscivano ad emergere in uno spazio così smisurato) e del coro (tranne qualche sfasamento nella scena del trionfo, pressoché inevitabile dato che era diviso in gruppi posti a decine di metri di distanza l’uno dall’altro).
Tanto pubblico e grande successo.
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