Venezia è città di moltissimi tesori, in gran parte esibiti. Alcuni sono più nascosti ma il loro valore non è certo minore. Uno di questi si chiama Fondazione Giorgio Cini e da sempre ha la sua sede nell’Isola di San Giorgio, in una magnifica posizione a soli poche decine di metri dalle icone della Venezia più nota. Da sempre Fondazione Cini significa cultura, concetto che nella piccola isola ha molte coniugazioni. La musica è una di queste. Musica significa anche memoria e la memoria di un passato anche recente è alla base di una delle attività più importanti dell’Istituto per la Musica, articolazione fra le più antiche della Fondazione veneziana: gli archivi di personalità musicali del ventesimo secolo.
Di quanto sia fondamentale l’attività archivistica anche per la prassi esecutiva della musica del Novecento, abbiamo parlato con Gianmario Borio, musicologo dal profilo scientifico internazionale e direttore dell’Istituto dal 2012, che abbiamo incontrato nel suo ufficio nell’isola di San Giorgio.
Professor Borio, come nasce l’Istituto per la Musica?
«L'Istituto per la Musica nasce nel 1985 da un braccio dell’Istituto per le Lettere, il Teatro e la Musica, diretto da Gianfranco Folena dal 1970, che aveva un più ampio raggio di azione. Già dalla fondazione, quindi, l’Istituto è molto orientato sulle arti performative, sugli incroci fra diverse discipline e organizzato intorno ad alcuni fondi archivistici storici già allora disponibili, come quelli del compositore Gian Francesco Malipiero e il ricchissimo fondo di libretti d’opera di Ulderico Rolandi. Nel 1985 l’Istituto si autonomizza e arriva il primo direttore, Giovanni Morelli, e dal 2007 viene affiancato da quello che allora si chiamava Centro Studi per la Ricerca Documentale sul Teatro e il Melodramma Europeo e che oggi ha assunto la denominazione di Istituto di Teatro e Melodramma, diretto fin dalla fondazione da Maria Ida Biggi».
Torniamo all'Istituto, le cui attività sono rivolte particolarmente a tre aree: i processi compositivi, la teoria e pratica dell’interpretazione musicale e l’esperienza audiovisiva. Gli archivi di personalità di rilievo del mondo musicale rappresentano una parte molto qualificante del vostro lavoro. Vuol parlarne?
«L’Istituto che dirigo è in effetti molto impegnato nell’acquisizione, la conservazione, la tutela, e la valorizzazione di archivi del XX e del XXI secolo. In epoca Morelli le acquisizioni hanno riguardato, fra gli altri, Camillo Togni e Nino Rota. Dopo il 2012, da quando cioè sono direttore, abbiamo continuato e aggiunto gli archivi Giacomo Manzoni, Domenico Guaccero, Egisto Macchi, Roman Vlad e molti altri, fino alle nostre acquisizioni più recenti, cioè gli archivi dei compositori veneziani Renato De Grandis e Ernesto Rubin de Cervin Albrizzi. Compositori a parte, conserviamo anche il fondo d’archivio del coreografo Aurel Millos. Tutte le nostre acquisizioni sono frutto di autentiche donazioni, cioè spontanee e gratuite».
Che tipo di lavoro comporta l’acquisizione di un archivio per il suo Istituto?
«Siamo una sorta di Giano bifronte. C’è una dimensione puramente archivistica, nella quale vengono investite una buona parte delle nostre energie, che comporta la conservazione, la catalogazione, l’immissione dei dati online, la scannerizzazione, la digitalizzazione dei materiali cartacei compresi in un fondo, in particolar modo i manoscritti come lettere, abbozzi e tutto il materiale che documenta il processo compositivo. Poi c'è l'altra dimensione, che è quella dell’attività scientifica, che ha un profilo internazionale. La ricerca si traduce in primis nella collana di pubblicazioni di musicologia da me diretta con un focus sul XX secolo, Musical Cultures of the XX Century. Abbiamo anche una seconda collana, che riguarda più in dettaglio il processo compositivo. Detto in termini molto poveri e succinti, ha a che fare con la riproduzione in facsimile di una selezione di materiali esistenti su carta che conserviamo nei nostri archivi a San Giorgio, con commenti critici. In questo ambito, nel 2018 abbiamo pubblicato il primo volume della collana The Composer’s Workshop, cioè Nino Rota: La dolce vita. Sources of the Creative Process curato da Giada Viviani. Tutte queste pubblicazioni sono in lingua inglese, perché riteniamo che tali lavori abbiano il merito o il pregio o l'ambizione di avere una diffusione internazionale».
Fin dalla fondazione l’Istituto di Musica si occupa soprattutto di compositori del XX secolo: perché questa scelta?
«Deriva da molti fattori. Uno è senza dubbio il fatto che tutto è cresciuto intorno a Gian Francesco Malipiero e quindi il neoclassicismo è stato il punto di partenza. Poi dipende anche dai direttori: sia per Morelli che per il sottoscritto, l'attività primaria, ma non esclusiva, è la musica del XX secolo. Aggiungo però che qui a San Giorgio possediamo un fortepiano dell'Ottocento che cerco, magari una volta l'anno, di far suonare e organizzarci qualcosa attorno o "dentro". Nel passato abbiamo organizzato già un paio di “schubertiadi”, un evento su Haydn nel 2015, e nel 2020 speriamo di fare qualcosa su Beethoven. Tali attività restano però collaterali al “core business” dell’Istituto».
Come si muove il suo Istituto a livello internazionale?
«A livello europeo, abbiamo collaborazioni e contatti costanti con istituzioni simili alla nostra. Nel 2015 abbiamo organizzato un convegno sulle corrispondenze fra musicisti del XX secolo al quale hanno partecipato rappresentanti della Fondazione Paul Sacher di Basilea, dell'Akademie der Künste di Berlino, dell'Internationales Musikinstitut di Darmstadt, della British Library per citarne solo alcuni. Un progetto nel quale siamo impegnati con partner internazionali è legato alla creazione di piattaforme condivise attorno a tematiche specifiche, ad esempio agli epistolari dei compositori. Il XX secolo si può vedere come un network internazionale e quindi solo con il lavoro congiunto fra istituzioni si possono individuare materiali rilevanti da ordinare per avere un quadro completo sull’attività di una qualche personalità artistica o su un certo progetto compositivo. Si tratta di un progetto dal costo piuttosto elevato e la sua attuazione dipende dalla disponibilità di finanziamenti. Se arrivano, diventiamo operativi subito per i prossimi tre anni. Gli archivi difensivi di pura conservazione, che non mettono a disposizione nessuna informazione, si troveranno molto, molto male in futuro».
In un articolo pubblicato in occasione dei trent'anni dell’Istituto di musica lei ha scritto: «La fonte non testimonia semplicemente una fase del processo compositivo ma può anche fornire informazioni cruciali sulla struttura stessa del messaggio musicale o in altri casi sulle dinamiche della compagine culturale». Vuole spiegare?
«Gli studiosi che hanno lavorato per periodi più o meno prolungati su questi archivi hanno acquisito o consolidato la convinzione che la fonte non testimonia semplicemente una fase del processo compositivo, ma può anche fornire informazioni fondamentali e non reperibili altrove sulla struttura stessa del messaggio musicale o, in alcuni casi, sulle dinamiche tra artisti e sul contesto culturale in cui le composizioni sono nate. Per esempio, le annotazioni di Rota in un bloc notes con le prime idee per la musica della Dolce vita dopo aver passato una serata con Fellini che comincia a raccontargli il film che ha in mente, non solo fa luce sui diversi stadi del processo compositivo ma anche sulla concezione estetica, sulle relazioni fra artisti diversi e così via».
«Per non parlare degli appunti di Beethoven nei suoi quaderni di schizzi, magari dopo una lunga passeggiata in un parco: sono uno specchio della coscienza estetica del "creatore", dell'artista e allo stesso tempo sono anche lo specchio di un mondo storico determinato. Queste fonti, in genere, non danno un messaggio unico ma sono piuttosto "a raggiera", cioè danno segnali in direzioni diverse».
È vero sempre o cambia qualcosa nel XX secolo?
«Nel XX secolo la portata si amplifica. Già in Beethoven ma anche un po’ in Schubert e Schumann si vedono già delle tendenze che si ingrossano molto nel XX secolo, perché acquista molto più peso l'aspetto autoriflessivo. Ma anche perché le grammatiche tradizionali hanno perso validità e nuove grammatiche del linguaggio musicale vengono sviluppate con nuovi percorsi estetici».
Quando si parla di archivi si pensa a qualcosa di vecchio e polveroso. Qual è il loro futuro, se c’è un futuro, a suo avviso?
«Sono totalmente convinto che l'archivio diventerà sempre più importante non soltanto come depositario della memoria storica ma anche come luogo propulsore che può creare cultura, proprio attraverso la diffusione online che pian piano, attraverso la digitalizzazione, diventerà sempre più frequente. E in questo modo si apriranno nuovi canali di informazione e renderanno possibile anche accessi a nuovi utenti. Su questo tema ho scritto in un articolo nella nostra rivista online Archival Notes.»
Quanto dice mi fa pensare al bel documentario di Frederick Wiseman Ex libris. The New York Public Library che descrive benissimo la transizione fra la biblioteca “classica” intesa come deposito di libri a quella del XXI secolo, che tende a diventare luogo di circolazione di idee e contenuti quando non una guida alla massa informe di contenuti divenuti accessibili grazie alla rete.
«È vero che soprattutto i colleghi americani della Library of Congress o della New York Public Library stanno andando a grandi passi in quella direzione. È vero che la biblioteca o l’archivio può essere davvero tante cose e dare un senso diverso al lavoro scientifico oltre che potenziarlo».
«Sono convinto che l'archivio diventerà sempre più importante non soltanto come depositario della memoria storica ma anche come luogo propulsore che può creare cultura».
«Ad esempio, il Paul Getty Centre sta già lavorando sull’idea di "platforms" di condivisione, nelle quali si mettono a disposizione contenuti digitalizzati su una sorta di tavolo virtuale accessibile da diverse parti nel mondo. Per ora l’accesso è ristretto a soli utenti invitati, ma esistono già gruppi di studio su materiali eterogenei messi di volta in volta a disposizione su quei tavoli da istituzioni diverse che accettano di sedersi attorno a quei tavoli. Gli europei sono un po' più timidi, ma noi qua alla Fondazione Cini siamo abbastanza pronti a fare quel passo. Le possibilità offerte dalla tecnologia sono enormi».
Da professore di musicologia, quali potenzialità vede a livello didattico?
«Ho cominciato a insegnare in Italia nel 1993. In quegli anni insegnare la musica del XX secolo era molto problematico perché lo studente non era abituato a quella musica, era una cosa strana e via dicendo. Oggi gli studenti arrivano al XX secolo attraverso percorsi trasversali, magari dal jazz o dalla musica barocca. E tali percorsi trasversali sono possibili oggi, perché internet li rende possibili. La tipologia di studente oggi è molto diversa dal passato anche recente e piuttosto diversificata. Se questo lo proiettiamo a un livello più grande allora è chiaro che attraverso le “digital humanities” si creano dei percorsi “open educational”, ossia possibilità di trasmissione del sapere, inediti e rivolti anche a settori, con cui generalmente noi non comunichiamo».
Ad esempio?
«Ad esempio a chi vuole recuperare nozioni di base, che non ha potuto coltivare da ragazzo. Ad esempio a pensionati giovani, che magari da ragazzini suonavano il clarinetto o la chitarra in un gruppo jazz o in una rock band. Ci può essere una fascia nuova di utenti interessati alle cose che facciamo e che, grazie alla professionalità acquisita attraverso l’esperienza lavorativa, hanno anche il senso della qualità. Paradossalmente l'archivio che sembra la cosa più esoterica di questo mondo, può diventare anche la più comunicativa».
Come si combina l’attività archivistica con la pratica dell’interpretazione musicale, una delle aree di attività del suo Istituto?
«Una o due volte l'anno organizziamo delle attività che definiamo “research-led performance”. Tali attività si potrebbero descrivere come un allargamento dell'archivio alle pratiche dell'esecuzione musicale. L’obiettivo è avvicinare gli esecutori e anche i docenti alle problematiche delle fonti, sensibilizzandoli su come può cambiare la pratica dell’esecutore quando si conoscono le fonti e se ne comprende il significato. Anni fa abbiamo cominciato con una collaborazione molto positiva con l'Orpheus Institute di Gand, uno dei centri propulsori dell'“artistic research” a livello mondiale. Con loro abbiamo lavorato su lavori di Mauricio Kagel dei primi anni Settanta, come Tactile, basati in parte su oggetti costruiti ad hoc. In quel caso, lo studio delle fonti aveva l’obiettivo di reperire esattamente la tipologia degli oggetti che entravano in gioco. Abbiamo anche lavorato su composizioni di Fausto Romitelli, Giacomo Manzoni e altri per chitarra e chitarra elettrica con un gruppo di giovani musicisti selezionati attraverso un bando non tanto preparare i pezzi come in una masterclass, ma lavorando su nozioni strumentali e filologiche. In fondo, abbiamo fatto quello che nel mondo del barocco si chiama “historically informed performance”, cioè abbiamo informato l'esecutore sul background storico che ha prodotto un certo pezzo».
«Se è un atteggiamento ormai normale per la musica del XVII o XVIII secolo, stranamente non lo è affatto per quella del XX secolo. Vero è che su questa musica prevale una specie di pregiudizio secondo cui nella partitura c'è tutto e bisogna suonare esattamente quello che c'è scritto, come sostenevano Schönberg o Stravinskij per esempio. Quest’idea è ancora molto diffusa e dunque, se si deve suonare quello che c'è sulla carta, non possono avere alcun interesse le fasi che precedono il processo compositivo. A causa di questo malinteso, si è creata una specie di distanza dell'esecutore dalle fonti storiche del XX secolo. Oggi però questo atteggiamento sta cambiando e soprattutto i giovani interpreti mostrano un forte interesse per il nostro approccio».
Vuol fare qualche esempio concreto per far capire perché non basta suonare quello che c’è scritto?
«Prenda, per esempio, il Quartetto in due tempi di Bruno Maderna: ci sono delle fasi lineari alternate, in maniera apparentemente disordinata, a bicordi, tricordi e altre cose del genere. Dietro c'è l'abbandono del pensiero motivico tematico, tipo Scuola di Vienna per intenderci, c’è l'abbandono della dodecafonia a favore di qualcos'altro. Ma tutti questi aspetti brulicano sullo sfondo e nessun interprete può averne coscienza fermandosi alla pura scrittura. Innanzitutto, lo studio del processo compositivo fa capire come Maderna ha pensato quel pezzo e quindi fa escludere alcune possibilità interpretative. Secondo, fornisce anche informazioni concrete sugli elementi di superficie e su quelli più nascosti, cioè indica quali elementi devono essere portati in primo piano e quali possono restare più nascosti. Chi deve stare in rilievo fra violino e violoncello in un certo passaggio? O i due strumenti devono fondersi in un mezzoforte? È chiaro che le condizioni della prima esecuzione del Drolc Quartett a Darmstadt nel 1955 sotto la supervisione dello stesso Maderna non sono ripetibili perché il filo diretto con l’autore si è ormai spezzato (Maderna è morto nel 1973)».
«Altro esempio: in alcune composizioni di Boulez, a un certo punto ci sono due linee che si toccano in diversi punti. Si tratta di eterofonia oppure, piuttosto, una linea è l'immagine ombra dell’altra che deve stare in primo piano? All’esecutore contemporaneo restano gli schizzi e il materiale che il compositore ha lasciato a documentazione del processo creativo che ha prodotto un pezzo musicale. Gli schizzi danno informazioni su questi aspetti, determinanti per la corretta esecuzione. Fatto salvo che tutte le interpretazioni "belle" sono corrette, studiando le fonti ci si avvicina almeno alle intenzioni dell'autore».
Quale è stato il focus del workshop di quest’anno?
«Il workshop ha avuto luogo dal 6 al’8 giugno qui all’Isola di San Giorgio. Al centro ci sono stati il Quartetto n. 6 di Bela Bartók e il Quartetto n. 7 di Gianfrancesco Malipiero. Come nelle due edizioni precedenti, abbiamo alternato esercitazioni strumentali a sessioni di ricerca musicologica. Quest’anno della parte strumentale si è occupato il Quartetto di Venezia, mentre le sessioni musicologiche sono state affidate a Francisco Rocca, un musicologo che segue l’archivio del nostro Istituto, e Lásló Vikárius del Bartók Archívum di Budapest».
L’importanza delle fonti è anche legata, secondo lei, alla crescente importanza della componente performativa in gran parte della musica della seconda metà del XX secolo?
«Da un lato è vero che l'aspetto performativo diventa dominante nella musica del secondo dopoguerra. Dall'altro, però, va detto che gli esecutori oggi sono molto più bravi che nel passato: interiorizzano, producono ottime sonorità, hanno capito il linguaggio. Spesso trascurano tuttavia quello che potremmo definire il senso originario dell'opera, quando addirittura non c'è un atteggiamento di vera e propria schiavitù auto-indotta rispetto alla partitura stessa. In altri termini, spesso l'esecutore ha talmente paura di commettere errori eseguendo una partitura di Salvatore Sciarrino o di Brian Ferneyhough che ne fa una specie di fotografia, senza esserne necessariamente cosciente. Manca cioè la distanza penetrativa che invece rilancia il testo. Credo che acquisire conoscenze storiche possa essere di notevole aiuto all’interprete anche per questo. Almeno nei casi che ho testimoniato direttamente, gli interpreti erano tutti molto contenti di venire a conoscenza delle fonti storiche. E contrariamente alla norma che vede i musicisti chiedere più musica, a mia memoria, è la prima volta che vedo i musicisti chiedere più musicologia!».