Proserpine, un’opera al femminile
La prima assoluta dell’opera di Silvia Colasanti ha inaugurato il sessantaduesimo Festival di Spoleto
Seconda tappa della trilogia sul mito greco chiesta dal Festival dei 2Mondi a Silvia Colasanti, Proserpine è ricavata da un poco noto dramma in versi di Mary Shelley, adattato a libretto da René de Ceccatty e Giorgio Ferrara, che sono rimasti il più possibile fedeli all’originale e ne hanno conservato la lingua inglese. Nel mito di Proserpina, rapita da Plutone re degli inferi, la poetessa inglese riviveva in qualche modo sia la perdita prematura della madre sia la perdita dei propri tre figli: al centro del dramma è infatti il rapporto tra Proserpina e la madre Cerere, dapprima il loro amore tenerissimo, quindi il lutto per la perdita della figlia ma anche - quando Proserpina ottiene di trascorrere metà dell’anno con lo sposo e l’altra metà con la madre - il superamento del legame esclusivo e della dipendenza reciproca tra madre e figlia e l’instaurarsi di un rapporto più maturo e più aperto agli altri aspetti della vita.
Tutta l’opera si svolge al femminile, in un gineceo formato, oltre che da Cerere e Proserpina, da ninfe e altre figure femminili. Il maschio con la sua rozzezza e brutalità è tenuto fuori da questo mondo (il rapimento avviene fuori scena ed è riferito da Aretusa, come la morte di Euridice è narrata dalla Messaggera nell’Orfeo di Monteverdi) e il solo uomo a comparire brevemente in scena è il demone Ascalafo, che chiede la riconsegna di Proserpina a Plutone. Dunque sono donne sia le autrici del testo e della musica sia le protagoniste sulla scena e tutta l’opera vibra di una delicatissima sensibilità femminile.
Squisito il trattamento delle voci, che ora si esprimono in una specie di recitar cantando, ora si aprono in più o meno ampi squarci cantabili, definiti “arie” dall’autrice stessa: tutto fluisce senza improvvisi scatti, senza rotture violente, come se il dramma fosse rivissuto nella memoria, in un trascolorare continuo di sentimenti che sono ancora vivissimi ma in cui la drammaticità degli eventi appare decantata. Intorno a queste linee vocali così delicate e gentili, ma vibratili ed emozionanti, talvolta perfino ardenti, sta un’orchestra translucida – sono evitati raddoppi che appesantiscano il suono: non due flauti ma uno solo, e similmente un oboe e un fagotto – che mantiene alcune costanti di fondo ma è in continua trasformazione, e riesce a trasmettere la tensione drammatica latente nel mito senza forzature e senza effetti troppo appariscenti. Gli strumenti acuti circondano le voci femminili, ne sono il commento e quasi il prolungamento, mentre al di sotto le percussioni sono un profondo e cupo suono tellurico, la presenza continua e minacciosa di quel mondo sotterraneo in agguato da cui verrà la violenza del rapimento. Una partitura ricca di infiniti sottili dettagli, minimi ma preziosi, scritta con un’abilità artigianale rara, che si coniuga con una sensibilità ed una emotività altrettanto sottili e preziose.
La prima assoluta di Proserpineha avuto l’esecuzione di grande qualità, indispensabile a metterne in luce la delicata ricchezza musicale ed espressiva. Attenta e precisa, sensibile e raffinata era la direzione di Pierre-André Valade, che ha sicuramente fatto un grande lavoro per portare gli ottimi ma poco esperti strumentisti dell’Orchestra Giovanile Italiana a un tale livello. Nel cast brillavano le due ottime protagoniste, il soprano Disella Larusdottir (Proserpine) e il mezzosoprano Sharon Carty (Ceres). Nei ruoli che non sarebbe corretto definire secondari erano inappuntabili Anna Patalong (Ino), Silvia Regazzo (Eunoe), Gaia Petrone (Iris), Katarzyna Otczyk (Arethusa) e Lorenzo Grante (Ascalaphus).
Si è lasciata per ultima la parte registica, perché questa è un’opera di sentimenti e affetti, di sensazioni e presagi, e l’azione è ridotta al minimo. Tuttavia la scena potrebbe essere importante per rendere in qualche modo “visibile” la sottile trama psicologica. La regia di Giorgio Ferrara ha fatto qualcosa in tale direzione, ma poco più dell’indispensabile, avendo comunque il merito non trascurabile di evitare sbandate, perché i movimenti misurati e interiorizzati cercavano di accordarsi alla musica. Un po’ eccessivi ed estetizzanti i costumi - tunichette ellenizzanti, bracciali e gambali minoici, copricapi a dir poco bizzarri – di Vincent Darré. Semplicissime le scene – tre fondali su cui erano dipinti pepli dai colori accesi – firmate nientemeno che da Sandro Chia.
Teatro pieno – seppure non esaurito - e successo caloroso: trattandosi di un’opera contemporanea, potrebbe sorprendere ma era assolutamente meritato.
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